L’aereo volava alto nel cielo, prossimo al tramonto, come una “scheggia” argentea, a volte fulminata dai raggi scarlatti, a volte occultata da nubi immense, bianche, spumose, che impedivano la vista del lontano orizzonte confuso, quasi indistinto, fra terra e mare. Sotto di noi scorreva il paesaggio incantato tra Toscana e Romagna. Da quell’altezza gli “aspri” Appennini ed i profondi calanchi che mostrano le rughe lasciate da mari preistorici, perdevano la loro “arrogante” altezza, in una visione prospettica che tutto trasformava in un’immensa pianura, divisa in un’ordinata scacchiera di vari colori: verde brillante di vigne allineate, verde cupo di fieno odoroso, giallo acceso di girasoli e, qua e là, piccoli laghi brillanti. A quella visione, il rombo monotono dei motori, scomparve dai miei sensi; chiusi gli occhi e fu allora che rividi i dipinti di Giuliano Paladini, da me osservati tempo prima. I dipinti di Paladini, autodidatta toscano, non hanno alcuna pretesa culturale, anzi, con semplicità ed una dolcezza innate nell’intimo del personaggio, rappresentano ciò che colpisce poeticamente il suo animo; ed è con estremo pudore che identifichiamo le sue opere come appartenenti alla vasta corrente “neo espressionista”, quasi limitassimo un’espressività che, pur basandosi sull’osservazione del mondo e delle cose degli uomini, esprime principalmente l’aspetto pregnante della fatica, di una vita scandita dall’alternarsi coerente delle stagioni, legate indissolubilmente ad una terra che è vita, è dolore, è tradizione di una civiltà antica che, a poco a poco, scompare, lasciando in vuoto incolmabile d’affetti, di sentimenti semplici che contraddistinguono gente che della pazienza ha fatto una filosofia che consente fatiche inenarrabili e amori profondi.
Adesso sentiamo il “tamburellare” delle ruote di un pesante carro che zeppo di fieno percorre traballando un viottolo sconnesso, candido di polvere fine disseccata dal sole primaverile; udiamo i buoi bianchi, dalle lunghe corna, che trainano quel carro “apparente” indifferenza: la loro straordinaria forza è espressa dalle grandi masse muscolari che l’uomo, con implacabile violenza, ha privato dalla baldanza del loro “sesso virile”. Il contadino, a passi misurati, accompagna il lento procedere del suo carro verso la quiete della pieve dove l’attendono la sposa amorevole intenta al desco vespertino ed i suoi figli, ancora piccoli, che “urlano” tutta la loro innocente voglia di vivere, nell’approssimarsi della sera, quando stanchi e felici, consumeranno un pasto frugale, per poi perdersi in un sonno profondo, distesi su poveri pagliericci ricolmi di foglie disseccate di granoturco; e per loro, sarà come sognare su morbide piume d’oca. Ancora la campagna, contadini intenti a spianare con le zappe le zolle rilucenti appena rivoltate dalla possente lama del vomere, fumiganti nell’aria pungente del mattino, sapientemente manovrato dal contadino dal viso reso “bronzeo” dalla consuetudine al sole: eccolo intento ad incidere profondamente la terra, guidando l’aratro con perizia per agevolare lo sforzo dei buoi, chini sotto il peso del giogo, obbedenti ai comandi bruschi, urlati dal bracciante instancabile.
Ci troviamo, come già detto, tra Toscana e Romagna eppure ci sembra di rivivere, fatte le doverose considerazioni temporali e culturali, l’atmosfera profondamente siciliana che traspare dai quadri di Eustachio Catalano, di Giambecchina, senza trascurare il ricordo del grande macchiaiolo toscano Giovanni Fattori, cantore, fra ‘800 e ‘900, di un’epopea dai contenuti eroici; come dimenticare i tratti incisivi della sua pittura, inconfondibili, esplicitati in inimitabili opere d’arte che sono anche e soprattutto “monumenti” al mondo contadino, base di ogni civiltà umana, eppure negletto. Una civiltà senza tempo che accomuna aree tante lontane e diversi per posizione geografica, storica e per tradizioni ma estremamente somiglianti nei gesti, nei sentimenti, nell’amore per un mondo che, tristemente, scompare, sfumando l’immagine dolcemente bucolica della “massaia” e della arzdora” che sull’aia gettano con ampio gesto il “granone”, ai polli ed ai tacchini, felici della loro “sazia” libertà, ignari dell’inevitabile fine della loro breve esistenza. Giuliano Paladini si concede, di tanto in tanto, qualche “innocente” digressione, spostandosi dalla terra al mare; ed ecco rappresentata Portofino, non con la semiastrazione di Michele Cascella, né con la volgarizzazione di innumerevoli imitatori che, speriamo inconsciamente, non hanno compreso che si può imitare un tratto di matita, un colore, ma certamente non l’atmosfera che è scaturita orgasmicamente dall’animo di un grande, irraggiungibile maestro. Paladini non cade in questo errore fatale, si limita a rappresentare il reale con la sensibilità di colui che ha compreso la forza delle forme e del colore senza influssi scolastici, certamente utili, ma alle volte condizionanti negativamente. Uno scossone, una rapida frenata, ci fa riaprire gli occhi: il volo è terminato e torniamo alla realtà di un lungo asettico tubo che, misteriosamente, si è trasformato per noi in una meravigliosa “macchina del tempo”, consentendo al ricordo e alla immaginazione, di volare insieme al nostro fragile corpo.