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- FEDERICO II E LA CACCIA CON IL FALCO -

6 marzo 2009

di Claudio Alessandri

La caccia con il falco ha origini antichissime, è testimoniato da alcuni disegni parietali ritrovati nelle tombe egiziane ed in Cina veniva praticata già 2000 anni prima di Cristo, la esercitavano i romani diffondendola in tutto l’impero, quindi i giapponesi e gli indiani, in Europa fu introdotta diffusamente nel IX secolo e divenne il passatempo prediletto dei nobili.

I musulmani praticavano la caccia con il falco da molti secoli e la introdussero in Spagna ed in Sicilia nel corso delle loro invasioni, divenendo caccia ed insieme sport per pochi eletti.

Federico II elevò questa caccia a vera e propria arte codificata, introdusse l’usanza musulmana di coprire il capo dei rapaci con un piccolo cappuccio, per tranquillizzarli e renderli mansueti agli ordini impartiti dal falconiere e mise termine all’uso crudele adottato, sino ad allora in Europa, di cucire le palpebre delle povere bestie, scucendole man mano che l’addestramento procedeva, sino al termine.

L’imperatore nello scrivere il trattato sulla falconeria: “De Arte Venandi Cum Avibus”, pose in atto tutte le sue conoscenze in merito: descrisse tutte le fasi dell’addestramento, distinse con dovizia di particolari i vari tipi di uccelli che si potevano cacciare, descrivendo anche le loro abitudini di volo e le tattiche di difesa quando venivano attaccati dai predatori.

Federico che, molto probabilmente, non aveva inizialmente l’idea di dar vita ad un’opera così ponderosa, finì per comporre un vero e proprio trattato dedicato alla falconeria, uno scritto tanto curato nei particolari e ricco di nozioni, non solo venatorie, ma anche ornitologica come mai era avvenuto fino ad allora, rimanendo un’opera fondamentale, nel suo genere, sino ad oggi.

La sua conoscenza sulla falconeria aveva raggiunto un tale livello di competenza da potere contestare alcuni punti d’ornitologia scritti dal grande filosofo, giungendo ad accusarlo di essersi occupato di un argomento che conosceva per averlo sentito descrivere, ma senza essersi curato di accertarlo personalmente.

Il codice originale, ricco di numerose e preziose miniature e che l’imperatore non abbandonava mai durante i suoi frequenti, lunghi spostamenti, andò purtroppo smarrito nelle fasi concitate della sconfitta subita ad opera dei parmensi nel 1248.

La copia che è giunta fino ai nostri giorni, fu vergata dal Re Manfredi, figlio dello Staufen, arricchendolo di miniature copiate dall’originale.

Quando Manfredi fu sconfitto ed ucciso nella battaglia di Benevento, quel prezioso trattato cadde nelle mani angioine.

Il suo avventuroso “peregrinare” non era però finito; un nobile francese, Jean II Dampierre, che aveva preso parte alla marcia di conquista dell’impero Svevo, ne entrò in possesso e, qualche tempo dopo ne realizzò una copia in francese, non trascurando le miniature.

Il codice fatto riprodurre fedelmente da Manfredi, dopo essere passato per le mani di svariati nobili europei, tornò fortunatamente in Italia e, oggi, può essere ammirato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.

articolo del 6.3.09 siciliainformazioni

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