- LO "STRANO AMORE" DI AMEDEO MODIGLIANI - UNA MOSTRA A ROMA.
18 giugno 2009
di
Claudio Alessandri
Nella nota critica della mostra romana di Amedeo Modigliani, a cura di Massimo Riposati è subito evidente un'incomprensibile e diremmo, imperdonabile contraddizione.
Il titolo della mostra è: “Un amore segreto”, ma il testo che fa seguito, “denuncia” con adeguata crudezza, l’insensibilità sentimentale di Modì, una aridità che l’autore del pezzo attribuisce alla “…ferocia che spesso il genio coltiva nel giardino dei propri affetti…”.
A questo punto è bene chiarire a quale episodio della breve, ma intensa vita di Modigliani, Massimo Riposati attribuisce quell' “amore segreto”. Modigliani conobbe una fanciulla, “forse” l’amò, di certo la possedette, in considerazione della nascita di un figlio, non lo volle mai riconoscere ed abbandonata quella donna, proseguì il suo cammino amoroso ricco di eventi. Della madre di suo figlio e dello stesso pargolo, di tanto “amore” forse, un ricordo più artistico che fisico, trascuriamo la morale, una crudeltà d’animo che adombrare con il “genio” spaventa colpevolmente.
Perché quel titolo? È presto detto è sufficiente sfrondare la presentazione di Massimo Riposati dalle considerazioni celebrative di un genio al quale tutto è perdonabile ed ecco lampante il senso logico di quel titolo.
La mostra romana che si compone di varie opere di Modì e dei suoi amici francesi ed italiani, è focalizzata su di un’opera mai presentata al pubblico, o per lo meno nota alla generalità dei non addetti ai lavori: “Jeune femme à la guimpe blanche”. La giovane dama altro non è che la madre “inconsapevole” (testuale dal testo di Massimo Riposati), del figlio di Modigliani, alla stregua di un equivoco molesto per un artista straordinario e un semplice “inciampo” non può “macchiare” il suo genio, ma a “macchiarlo” non è quell’episodio, senza dubbio spiacevole, ma certa critica che ha della morale una visione alquanto strana.
Il ritratto della “Jeune femme”, questo è reale, si mostra con cromatismi diafani che ben rendono un ricordo sfocato, quasi si trattasse di una immagine fotografica che, lentamente viene privata dal pigmento consumato da luce violenta.
Il volto ci appare soffuso di profonda tristezza, quasi intuisse un dolore prossimo, violento, insanabile. Modigliani ebbe una vita, diremmo, chiassosa, inevitabile risultato delle abbondanti libagione e della droga e del laudano considerato allora un tocca sana per lenire ogni dolore, fisico e morale, e Modì soffriva di ambedue, la tisi che lo consumava e l’irrequietezza di un’anima che anelava a grandi traguardi; amava profondamente la scultura anche se era la pittura a garantirgli la sopravvivenza.
Durante le brevi visite a Firenze, sua città natale, si precipitava nelle cave di Carrara e febbrilmente si procurava il materiale sul quale sfogava la sua passione per la scultura e di quelle “scorribande” ci rimangono delle sue opere splendide ispirate all’arte africana tanto in voga in quel tempo.
Modigliani comunque rimase l’artista degli splendidi nudi femminili adagiati in un abbandono ristoratore, da quei corpi e dai loro occhi scaturisce una forza sensuale irresistibile, tanto avvertita dal mondo in “fibrillazione”, di questo artista che immortalava la bellezza dei suoi bellissimi volti femminili posti su colli lunghissimi, simili a degli steli ad elevarne la bellezza.
Modigliani lasciò il palcoscenico dell’arte in un gelido giorno di gennaio del 1920, abbandonato sul suo letto posto nello studio di Rue De La Grande Chaumière, accanto a lui giaceva, incinta al nono mese; Jeanne Hébuterne che non visse molto oltre l’amato Modì, qualche giorno dopo si gettò, alle quattro del mattino, dal quarto piano del palazzo nel quale l’aveva ospitata il padre. Cessò di vivere all’istante.