Quello che mi ha sempre attirato di questi mercatini è il banco dei libri usati gestito da una signora dall’aspetto mite e dal colloquiare gentile e pacato. Ci conosciamo da qualche anno e, appresa la mia passione per i libri, non dico rari, ma certamente non comuni, in più riprese mi ha scovato qualche “chicca” letteraria, fra le tante un'edizione economica della Storia delle Crociate scritta da Michaud ed illustrata da cento splendide incisioni del Dorè.
La sorpresa ci è giunta proprio da quella gentile ed ancora piacente romagnola. Non si tratta di una rarità antica, ma di una sorpresa nuovissima, un romanzo scritto e pubblicato da Alberta Tedioli, una “venditrice di sogni” del paesino di Modigliana (FO).
L'ho acquistato, vinto da grande curiosità, ed ho iniziato a leggerlo immediatamente. Ho smesso solamente quando sono giunto al termine e per qualche tempo sono rimasto con quel libro in mano fissando il vuoto, riflettendo sul contenuto di quel romanzo che si intitola: “Sparagnì – L’avaro di Romagna” – (il gomito nel cuore), edito dalla casa editrice Tempo al libro Faenza (Ra).
Nel leggere questo romanzo dalla narrazione piana, scorrevole, scritto in un italiano piacevolmente corretto, interrotto, alle volte, da alcune espressioni dialettali romagnole ad impreziosire un racconto che “profuma” di campagna, risentiamo la nostalgia dei luoghi rimasti nel nostro ricordo, magari resi ancor più reali nei racconti di nostra madre, romagnola verace.
Nonostante Alberta Tedioli narri di una vita legata ancora, pur con l’intervento del progresso, a tradizioni di una civiltà antica che reca in se i germi del “nuovo” reclusi nel “vecchio”, si è portati, se non a giustificare, almeno a comprendere degli atteggiamenti altrimenti deprecabili. Quello che ci viene descritto è un mondo in bilico tra un dominio patriarcale ed il desiderio femminile di affrancarsi da una condizione di schiavitù, che adesso mal sopporta, scorgendo, anche se da lontano, i bagliori delle grandi città piene di negozi eleganti e di una umanità diversa, differente dal loro parlare, vestirsi e addirittura camminare.
Se poi consideriamo che la Clarina ha sposato Cencino, come lo chiama affettuosamente la moglie, un contadino tanto tirchio da essere chiamato “Sparagnì”, il quadro è bello che dipinto. Sparagnì non è solamente tirchio in modo feroce nello spendere i suoi soldi, ma financo a far dire al suo prossimo: “va nel cuore con il gomito”. Non si tratta più di vil denaro, ma di sentimenti. Quell’uomo non è avaro solo nel “mettere la mano in tasca”, ma lo è anche nel cuore, cioè è privo di sentimenti, per meglio dire, rifiuta persino di concedere il suo affetto anche alle persone a lui più vicine: la moglie e il figlio, Cesarino.
Un figlio concepito da Sparagnì quasi inconsapevolmente e mal sopportato, perché “crescere un figlio costa”. Figurarsi, dunque, quando Clarina gli annuncia di attendere un altro figlio. Sparagnì accoglie quella notizia alla stregua di una spaventosa disgrazia, al punto da suggerire alla consorte l’aborto, che Clarina respinge con sdegno.
Da quel momento Sparagnì, contadino abilissimo, ma privo della più elementare umanità, dà il via ad una guerra personale contro sua moglie, un'ostilità crudele che non conosce ragionevolezza. Per Clarina la tragedia si trasforma in buia disperazione, non trovando comprensione, nè da sua madre (“vedrai passerà”), nè dal prete della sua parrocchia, che minimizza, teorizza, fa minuta filosofia, digiuno com'è delle più elementari conoscenze di vita coniugale, ma, in compenso, ferratissimo sugli intangibili principi religiosi. Per Clarina si apre un baratro incolmabile di dolorosa tristezza, nel constatare di non essere compresa. Da nessuno le giungerà soccorso.
Probabilmente, Alberta Tedioli, ad un certo punto del racconto, cede alla tentazione della “lotta di classe”, inserendo un personaggio femminile: una “gran signora” che abita a Milano, ma che è nata a Modigliana. Questa, prima insidia il marito, poi, subdolamente, lo coinvolge in un'avventura commerciale che, per l’ignaro ed illuso Sparagnì, segnerà la fine dei suoi sogni di amorosa conquista. Quello che significherà per lui la “disperazione”, però, sarà la perdita di tutti i soldi ragranellati con estrema avarizia, unica ragione ed amore della sua vita.
La fine di tutto sarà segnata dalla catarsi, una conclusione nella quale la tragedia avrà il sopravvento su ogni ragionevole speranza di riscatto. Raggiunto il limite oltre il quale il dolore non può giungere, compresa la morte, all’inizio misteriosa, dell’adorato Cesarino, per assurdo, nella vita di Clarina ritorna la pace, una tranquillità che segna la nascita a nuova vita, straordinaria, inconscia filosofia contadina, nella quale anche il dolore più atroce fa parte del naturale alternarsi delle stagioni. Non ottusa indifferenza, ma sublimazione del vero valore della vita, nell’alternarsi altalenante che conduce, alla fine, ad un equilibrio perfetto: il dolore e la felicità si pareggiano, si compensano.
Intendiamoci, forse il racconto si prolunga un po’ troppo, ma, in quanto “opera prima”, merita tutta l’attenzione in attesa di conferme che verranno, speriamo, in un prossimo futuro.
articolo del 5/05/09 siciliainformazioni