- L'ISOLA DI MOZIA, LA STORIA GALLEGGIA SUL MARE -
6 ottobre 2008
di
Claudio Alessandri
Avevo voltato le spalle alla grande città, al suono disarmonico dei clacson, al chiacchiericcio monotono di un’umanità sempre in febbrile movimento, senza un apparente scopo.
Da qualche tempo un pensiero mi martellava crudelmente la mente e si ripercuoteva ad un’anima ancora desiderosa d’avventure, di visioni che riemergevano dalle nebbie di un lontano passato, adesso era giunto il momento di vivere, o meglio, rivivere le atmosfere di giorni vissuti nel magico incanto di mondi perduti che mi narravano storie fantastiche di riti misterici, di civiltà scomparse nell’immenso incendio attizzato dal desiderio di conquista, di potere, di ricchezza.
Avevo percorso una moderna autostrada che tagliava in due un paesaggio silente; il mare sulla destra, in gran parte precluso allo sguardo da costruzioni prive d’ogni armonia architettonica, simili a cataste di piatti rotti, gettati alla rinfusa.
A sinistra brevi pianure riarse dal sole e dall’alito marino,
qualche mucca smagrita brucava pazientemente cespugli spinosi, qua e là, “casali” in rovina che ricordavano l’antica, dispersa, civiltà contadina e torri dirute che, a ben ascoltare, narravano di cruente tenzoni con uomini dalla pelle scura che, in nome del loro dio, uccidevano, stupravano inconsciamente ricambiando la “follia” dei Crociati, anche loro “spietati” in nome di un dio.
Più lontano la cerchia dei monti, azzurrini nell’aria tremolante, infuocata, aspri, brulli, muti giganti impietriti dalle visioni inesorabili di millenni di storia. Poi, un’improvvisa deviazione, e giunsi su un viottolo polveroso e stretto, lo percorsi per un tratto sobbalzando ad ogni buca, in una nuvola di polvere bianca, superato un dosso, il mio cuore sobbalzò dalla gioia del ricordo, rivedevo, dopo innumerevoli anni, la costa bassa e pietrosa dell’estremo lembo nord della Sicilia, fra Trapani e Marsala, presto giunsi alla riva, come un tempo, le conche scavate nei bassi scogli, raccoglievano l’acqua salmastra portata dalle maree che si rapprendeva in cristalli lucenti, nati dalla forza del sole, spietato e prodigo d’abbondanza.
Il vento scorreva dolcemente sull’acqua dello “Stagnone”, increspandola appena e poco distante, quel piccolo lembo di terra che galleggiava su secoli di storia e che, io avevo calpestato indegnamente, spinto da un desiderio implacabile di sapere, ero stordito e felice ed il fenomeno, come tanti anni addietro, si ripeté; secoli di storia, scomparvero a ritroso lasciandomi solo a rivivere le sorti di quell’isoletta che la furia della greca Siracusa, aveva atterrato per sempre, rendendola inospitale ed insicura ai fondatori fenici.
Poco discosto dalla riva, mi osservava con aria distratta, un marinaio che, raggomitolato a prua di una barchetta dai colori vivaci, bruno come una prugna disseccata dal sole, mi guardava, per un attimo con curiosità, ma subito dopo il suo sguardo diveniva vacuo, privo d’interesse, proprio di colui che nella sua vita ha incassato tanti calci ed ha imparato che bisogna attendere, sempre, senza precedere gli eventi.
Fui costretto a chiamarlo, si riscosse come tornasse alla realtà dopo un lungo sonno, si “srotolò” e, con lentezza, che nascondeva prudenza e saggezza, impugnati i remi, venne sotto costa, dopo una breve contrattazione, tanto per rispettare le usanze, salii su quel “guscio” multicolore; il novello “Caronte”, senza proferire una parola, mi traghettò fino all’isolotto, poco distante, di Mozia per ridiscendere agli inferi, per tornare a rivedere i Campi Elisi.
Il silenzio era irreale, ero realmente giunto nel regno delle ombre? Fu’ allora che rivissi i miei vent’anni, risentii il profumo pungente delle erbe aromatiche che crescevano abbondanti fra i “nobili” ruderi di quella città che, un tempo dominò il mare africano, la carezza della brezza marina che giungeva propizia a temperare il vento caldo che spirava da sud; tutte sensazioni che avevo già provato, ma riposte in un cantuccio della mia anima nella attesa di un risveglio fatato e rivivere la storia millenaria di quello sperduto lembo di Sicilia, le sue glorie, le sue sconfitte, la sua fine dolorosa a placare l’ira di un popolo invasore, potente che non sopportò l’invadenza orgogliosa d’uomini venuti dal mare, molto prima di loro, che la violenza disperse, ma l’oblio non prevalse, le sue vestigia dirute per misteriose vie, un giorno, sono tornato a vivere, se non nell’umanità operosa, nel ricordo di una storia gloriosa che, ancora oggi, risuona nelle menti dei “moderni esploratori” che ascoltano esterrefatti.
L’origine storica di Mozia, abitata prima da popolazioni indigene, che vi lasciarono poche tracce, riferibili come già per Lilibeo (l’odierna Marsala) a civiltà di tipo neolitico, è fatta risalire dal Pace al secolo VIII a.C., ed a questo periodo si può ricondurre l’attività commerciale e lo stanziamento dei Fenici in Sicilia, i quali, contemporaneamente o poco prima, fondarono sulla non lontana e prospiciente, costa africana, Cartagine, che tanti lutti inflisse alla potente Roma.
I Fenici, occuparono Mozia, per la posizione strategica che si trovava al centro delle rotte più battute per i traffici marittimi, divenne presto un prosperoso nucleo abitato e gli storici ce la descrivono cinta da mura e di torri, ornata da palazzi e monumenti, popolosa e proclive a lucrosi commerci.
Le poche mura rimaste dimostrano che tutta l’isola era fortificata, garantendo alla città un robusto baluardo contro gli eventuali assalitori.
Considerata la loro varietà architettonica e del materiale usato, le mura non hanno carattere arcaico molto evidente, anche se alcune parti rivelano chiaramente la loro origine più antica per la struttura a filari isodomici, che le distinguono da tutte le altre fortificazioni esistenti in Sicilia, mentre i paramenti esterni debbono riferirsi al più tardo intervento greco.
Le mura erano munite da circa venti torri quadrangolari, con due posterie e due porte, le mura di Mozia, ma sarebbe meglio dire ciò che ne rimane, si estendono per un circuito di circa 2375 metri intorno all’isola, dandomi così una chiara intuizione, della massiccia mole di difesa che la muraglia, sorgente direttamente dal mare, doveva rappresentare; l’epoca della costruzione delle mura è fatta risalire al secolo VI a.C., opinione da me condivisa e che trova certezza nell’esistenza della sua necropoli rinvenuta sotto la cinta muraria già descritta.
Osservando con particolare attenzione, ho notato la presenza di merli semicircolari, che riecheggiano soluzioni architettoniche semite, e la frequenza delle torri che si alternano a breve distanza l’una dall’altra e che si ripetono nelle mura di Erice, con le quali hanno affinità e che, come queste, sono da attribuirsi ai Fenici.
Ad eguale distanza dalle porte esistono le posterie, che si aprivano nello spazio di mare fra le due porte principali, quella rivolta verso la terraferma, scendendo per delle scale che provenivano dall’alto, portava all’imbarcadero. La porta a nord, che si apriva presso la stretta lingua di terra, costruita artificialmente per le comunicazioni con la vicina terraferma, costituiva l’ingresso principale. La porta opposta era più piccola e le mura a lei addossate erano ornate dai caratteristici merli arcuati. Questa porta è ragionevole identificarla come l’ingresso del porticciolo militare interno che, secondo la tradizione punica, era tutto circondato da banchine.
Il porto di Mozia peraltro era formato da un’intera baia intorno all’isola e, essendo le isolette esternamente congiunte fra loro e forse anche con il Capo Teodoro, vi si poteva accedere soltanto da sud-ovest per uno stretto passaggio, la qual cosa rendeva l’isola munitissima.
Il complesso urbanistico di Mozia, che da Diodoro è ricordato come adorno di belli edifici, doveva estendersi su di un’unica via, che legava le due porte da nord a sud e intorno alla quale erano disposte le case.
Gli elementi, che sono apparsi dagli scavi, non sono molti, ma presentano caratteristiche interessanti. Notevole è la cosiddetta “casa dei musaici”, che conserva una sorta di musaico primitivo, composto di ciottoli bianchi e neri, che raffigurano gruppi di animali, motivo questo di carattere semitico, anche se gli elementi decorativi sono di tipo ellenico.
In località “Cappiddazzu” sono stati rinvenuti grossi blocchi, in cui si possono riconoscere gli elementi di un tempio o meglio di un recinto sacro costruito allo scoperto, secondo il culto fenicio, e del quale si perdette ogni traccia, essendo stato costruito nel sito, in epoca medievale, un monastero basiliano.
Interessante ancora è l’area di deposizioni sacrificali scoperta nella regione a circa duecento metri della necropoli di Birgi, dove in vasi di terracotta, sormontati da steli funerarie, erano depositati i resti degli animali sacrificati, testimonianza tipica del culto fenicio.
L’avere narrato quanto è rimasto a ricordarci l’antica città può suggerire alla nostra immagine, così come avviene per tante antiche città di Sicilia scomparse alla storia, come Mozia dovette essere ricca di commerci e di traffici e come dovette rendersi munita e forte per difendersi dagli assalti esterni. Lunghi secoli di abbandono, in cui neanche il suo nome era ricordato, tolsero a noi testimonianze più vive sulla sua antica fortuna, soltanto negli scavi delle necropoli ritroviamo con le suppellettili e i gioielli, che adornavano le antiche tombe, la testimonianza dei riti, dell’artigianato e delle arti.
Vorrà quindi il lettore seguirci se vuole prima di conoscere le vicende che portarono alla sua distruzione, soffermarsi ancora con noi per ritrovare nell’isola, in cui oggi ha il suo regno il silenzio e l’abbandono, il ricordo di quella gente che per tanti secoli vi visse e vi morì.
La popolazione di Mozia era costituita da coloni fenici e da gente di altra origine, quali greci e indigeni, gli Elimi, come testimoniano tre iscrizioni trovate nella necropoli di Birgi.
La prima necropoli di Mozia, che si ritiene fino ad oggi la più antica fra le necropoli fenicie in Sicilia e consente di stabilire il sorgere dell’attività di quel popolo nella città, si estende nella parte nord-ovest dell’Isola ed è situata sotto le mura di fortificazione, per la qual cosa si può ritenere che dovette precedere il periodo, in cui la città non si estendeva in tutta l’isola e i suoi cittadini non sentivano il bisogno di difendersi con una poderosa cinta di mura, come dovettero fare più tardi.
Notevole è il particolare del rito funebre ad incenerizione, ignoto in Sicilia e che, introdotto dai Fenici, si protrarrà fino al secolo VI a.C., quando alla cremazione fu sostituita l’inumazione di tipo ellenico con sepolcri in sarcofagi e in deposizioni isolate, come già nel secolo V a.C. appare nella nuova e più vasta necropoli della città sulla spiaggia di Birgi, dove sboccava la diga di congiunzione fra l’isola e la terraferma.
Per comprendere la notevole importanza commerciale e militare di Mozia, bisogna in certo modo rifarsi alle origini e al carattere della colonizzazione dei fenici in Sicilia.
I Fenici, originariamente, fondarono stazioni di commercio e scali per navigli nella rotta verso l’Iberia per la ricerca dello stagno e dell’argento e per questo sembra che seguissero le coste meridionali della Sicilia, da Capo Pachino al Lilibeo.
Nello stesso periodo lungo le coste settentrionali del Mediterraneo nelle spiagge dell’Italia meridionale e della Sicilia Orientale si svolgevano i primi commerci e la colonizzazione greca che, con il suo progredire contrastava l’attività di questi, che aveva carattere puramente economico, e quella ellenica, che mirava a stabilire un diretto dominio politico ed economico. Perduta la possibilità di esercitare i commerci nei territori divenute colonie greche, i Fenici tennero a mantenersi saldi nella zona occidentale della Sicilia, perché più strettamente legata alle ragioni su cui svolgevano ed erano dirette le loro attività commerciali: Africa, Sardegna, Baleari, Iberia.
Le ragioni di dissidio e di urto fra le due civiltà si erano già manifestate all’inizio del secolo VI a.C. e da commerciali ed economiche si avvieranno a divenire politiche e militari.
Perduti i centri della Sicilia Orientale, i Fenici si restrinsero a Mozia, Panormo e Solunto: per difendersi dagli assalti dei Greci, gli abitanti di Mozia chiederanno aiuto ai Cartaginesi, che malauguratamente, sostituendo la loro forza fresca a quella decadente dei loro consanguinei, si inserirono nella grande contesa di quell’epoca.
Nel secolo VI a.C. si ebbero peraltro gli episodi storici più notevoli dell’insediamento dei Cartaginesi in Sicilia e del sorgere del conflitto fra i Greci di Sicilia e i Cartaginesi, che divenne per secoli il motivo fondamentale della politica siciliana.
Nel 580 a.C. quando i Cartaginesi sconfissero Pentatlo, condottiero degli Ellenici, nel tentativo di fondare una colonia al Lilibeo, il dominio delle città fenicie di Sicilia passa ai Cartaginesi; nel 550 a.C. il condottiero Malco, vincitore di Pentatlo, effettua una spedizione in Sicilia per estendervi il dominio cartaginese, nel 510 a.C. Dorireo, che con l’aiuto dei Selinuntini voleva ritentare l’impresa di Pentatlo, è sconfitto e ucciso dai Cartaginesi. Contro il prevalere dell’elemento semitico fa riscontro il tentativo di unificazione da parte dei Greci per opera di Falaride di Agrigento.
Si chiude così in Sicilia l’attività pacifica e commerciale che caratterizzò l’epoca fenicia ed ha inizio un periodo di contrasti politici e militari che portarono alla distruzione di Mozia. La città nella lotta fra Cartaginesi e Greci non poté sottrarsi ad essere teatro di guerre e che successivamente portarono a quella più cruenta del 397 a.C. in cui la città fu distrutta, mi è vivo il ricordo della guerra avvenuta nel 454 a.C. fra Mozia e Selinunte, riportata nelle cronache del tempo probabilmente per questioni di territorio, che si combatté presso il fiume Mazaro; quella avvenuta pochi anni dopo in cui Mozia combatté contro gli Agrigentini e nella quale rimase sconfitta e infine la guerra fra Segesta e Selinunte nel 409 a.C., in cui i Cartaginesi furono chiamati dai Segestani e che si concluse con la distruzione di Selinunte. Fu proprio nella baia di Mozia che Annibale, nipote di Amilcare, il vinto di Imera, fece tirare a secco le sue navi approdando al Lilibeo, dove piantò il campo presso il famoso antro (pozzo) della Sibilla.
Mozia, come le città di Panormo e Solunto, che facevano parte della epicrazia cartaginese in Sicilia, godette per alcuni anni di una certa libertà, poiché i Cartaginesi, con saggia politica avevano concesso agli abitanti di quelle città una posizione privilegiata. Ma dopo la battaglia del 409 a.C. i Cartaginesi mutarono la loro politica: da allora le città fenicie siciliane furono costrette ad una più grave dipendenza e Mozia, chiamata colonia di Cartagine, perdette anche l’autonomia di coniare moneta.
Mozia destò l’odio anche dei Siracusani e divenne ancora una volta teatro di guerra. Dionisio, tiranno di Siracusa, nel 397 a.C. alla testa di una armata, composta di settecento navi da guerra e da carico e di un esercito di centomila uomini, s’accinse al terribile attacco. Volendo prevenire i Cartaginesi, Dionisio si diresse ad Erice e a Mozia, che rappresentavano i due punti più importanti della potenza nemica.
Gli Ericini si arresereo, gli abitanti di Mozia invece, ricevuto un piccolo aiuto cartaginese, respinsero le proposte di pace e si apprestarono alla difesa.
Prima che arrivasse Dionisio, i Moziani distrussero l’argine che univa l’Isola alla terraferma, ma la loro iniziatica poco giovò alla loro difesa poiché Dionisio, appena arrivato, costruì un nuovo argine, pose le navi da carico all’ancora e tirò a secco, presso l’imboccatura del porto interno le navi da guerra. Quindi, affidato al fratello, Leptine l’assedio di Mozia, con l’esercito di terra marciò contro le città alleate di Cartagine ma, mentre alcune città sicane si sottomisero a lui, le città elime e puniche di Alicia, Solunto, Segesta, Panormo ed Entella resistettero.
Ritornato Dionisio ad assediare Mozia, i Cartaginesi, per costringerlo a lasciare la città, mandarono Imilcone con dieci navi da guerra ad assediare Siracusa, li giunto distrusse le navi che si trovavano nel porto senza però riuscire a distogliere Dionisio dall’assedio di Mozia; Imilcone fu quindi costretto a dirigersi a Mozia, dove attaccò e disperse le navi siracusane che si trovavano fuori dal porto, ponendo in grande rischio Dionisio, non potendo usare le navi, in breve tempo, perché, come già detto erano state tirate a secco, e la flotta cartaginese controllava, ostruendole l’uscita del porto.
Si deve alla genialità di Dionisio se i Siracusani, raggirata la situazione, cambiarono le sorti della guerra. Dionisio fece costruire sulla lingua di terra, che separava la parte interna del porto dal mare al Capo Teodoro, lunga circa quattro chilometri, delle rotaie di legno e sopra di queste furono trascinate in mare aperto le navi siracusane. Ad evitare che i Cartaginesi molestassero le operazioni, Dionisio con il suo esercito si pose presso l’imboccatura del porto, da dove con una fitta pioggia di grosse pietre, formò una cortina di protezione, che doveva consentire il trasferimento delle navi. Imilcone, prevedendo che, quando le navi siracusane fossero state trasportate nel mare aperto, si sarebbe formata una flotta possente con la quale non avrebbe potuto competere, veleggiò verso l’Africa abbandonando Mozia alla sua sorte.
L’abbandono di Imilcone non scoraggiò i Moziani, che nella lotta per la difesa della loro città cinta d’assedio, si dimostrarono non meno tenaci degli assedianti, i potenti nemici siracusani. Dall’alto delle mure gettarono fuoco sulle torri e sulle altre macchine da guerra siracusane, barricarono strade e trincerarono le case, combatterono con disperata forza e con più accanimento dei Selinuntini nel 409 a. C.
Per pochi giorni i Moziani riusciranno a respingere gli assalti dei Siracusani, ma infine Dionisio, favorito dall’astuto assalto notturno di Archilo da Turio, s’impadronì della città, che fu saccheggiata e distrutta. Gli abitanti subirono i crudeli massacri, che lo stesso Dionisio non poté sottrarre dall’ira delle sue truppe, se non indicando loro di rifugiarsi nei templi, luoghi sacri ed inviolabili da uomini armati.
Scampati alla carneficina, i superstiti si rifugiarono sulla terraferma e fondarono la città di Lilibeo (Marsala).
L’isola di Mozia nel XVI e XVII secolo apparteneva ai Gesuiti, ma quando questi furono espulsi dalla Sicilia, fu divisa in piccole proprietà.
Alla fine dell’800 tutta l’isola fu acquistata da Joseph Whitaker, erede di un’illustre famiglia di industriali inglesi. Whitaker iniziò gli scavi archeologici sull’isola. La sua opera fu ereditata dalle figlie e poi dalla Fondazione Whitaker, tuttora attiva.
Uno dei ritrovamenti più importanti è stato quello della statua nota come "Il giovane di Mozia" ritrovamento avvenuto nel 1979.
L’antica divinità adorata dai Fenici Tanit, è raffigurata in una suggestiva stilizzazione su numerose steli funerarie
Tanit nacque dal sincretismo della civiltà fenicia con quella del nord-Africa e, con l’espandersi della cultura punica. La sua divinità si diffuse largamente nel Mediterraneo occidentale, in Sardegna, in Sicilia, a Malta, a Pantelleria ed anche a Roma, dove fu chiamata Dea Celestis.
Il nome Tanit sembra essere di origine libica, il cui culto sarebbe stato adottato dai Cartaginesi, mescolato ed adattato con elementi religiosi propri importati dalla madrepatria.
La raffigurazione di Tanit può essere studiata secondo due direttive: quella antropomorfa e quella simbolica.
La prima è formata dalle statuette che la rappresentano come una donna nuda che si stringe i seni, chiara indicazione di fertilità. Appare talvolta anche rappresentata su un trono e, in epoca romano, cavalcante un leone.
La seconda è costituita da un disegno – simbolo di Tanit – di assai discusso significato – in cui sono combinati un triangolo equilatero, una linea orizzontale e un disco, in modo da voler quasi rappresentare, in modo rozzo, una figura umana.
Il “segno di Tanit” non rappresentava solo un’espressione artistico-religiosa: era l’invocazione della famiglia agli dei perché ne assicurassero il benessere, la concordia, la fertilità e la fecondità.
Ma Tanit era anche il nome che i Cartaginesi attribuirono alla Luna, che era rappresentata come un’immagine femminile stilizzata tra gruppi di stelle, e le dava perciò un fondamento di eternità, legato alla natura celeste dell’astro. Poiché la luna è mutevole d’aspetto nelle sue fasi, pallida, luminosa, invisibile, furono attribuiti a Tanit anche denominazioni antitetiche ed ambigue: dea dell’Amore e della Morte, Creatrice e Distruttrice, Tenera e Crudele, Protettrice ed Ingannevole.
Così sarà identificata anche dai cristiani come Lilith, la Luna nera dei Semiti, demone infernale e protettrice delle streghe, a testimonianza della persistenza del culto lunare fino al medioevo.
Il culto religioso di Tanit fu quello del “tophet”, importato dal mondo fenicio, luogo sacro da me osservato con commozione a Mozia, ricordandomi un antico rito crudelmente impietoso dedicato a Tanit perché dalla morte di pochi eletti fosse salva la vita di molti.
Infatti, nel tophet sembra fossero sacrificati i figli primogeniti delle famiglie nobili. I Tophet sono ampi terreni recintati, che contengono urne fittili sepolte, al cui interno sono conservate ossa di fanciulli morti in tenera età, deposte singolarmente o assieme a resti di piccoli animali. Un elemento distintivo di questi santuari sono le stele di pietra, decorate con simboli sacri, erette a ricordo della cerimonia. Il tophet ed il sacrificio umano come sacra offerta è tipico della mentalità fenicia, mentre non ha riscontro in quella greco-romana.
Per i Fenici, quando appariva inevitabile che una divinità avesse preso di mira una città, non si doveva indugiare ad offrirgli vite umane, in modo che potesse scaricare la sua ira ed il suo furore. Con l’idea che nessun sacrificio più di questo rallegrasse e calmasse la divinità, i Cartaginesi si votarono ai sacrifici umani donando quanto di più caro e prezioso avessero, cioè la vita dei propri figli primogeniti: volevano in tal modo che il dio Ba’al assicurasse la prosperità ed esaudisse i loro desideri e che la dea Tanit proteggesse la città garantendo la sua eternità. I fanciulli sacrificati erano “divinizzati” creando in questo modo una comunicazione diretta con le autorità sovrannaturali.
Di solito per il rituale era sufficiente sostituire i fanciulli con una bestia viva (agnelli, uccelli, pecore), ma talvolta, per calmarsi, gli dei esigevano davvero l’offerta del sacrificio umano. Esso era tanto più terribile perché ai parenti delle vittime era severamente vietato esternare il proprio dolore davanti all’altare, perché gemiti e lacrime avrebbero sminuito il valore del rito.
Diodoro Siculo, lo storico di Agira, ricorda il sacrificio di 200 bambini presi dalle più illustre famiglie di Cartagine. Si era proceduto alla sostituzione dei fanciulli delle migliori famiglie con bambini comprati o adottati da famiglie miserabili; e da qui, per redimersi dell’orrore compiuto, il governo di Cartagine decretò il sacrificio di 200 bambini appartenenti tutti alle famiglie nobili.
Il ricordo di questi riti propiziatori è tramandato dai fuggiaschi a Lilibeo e, ancora oggi, alcune donne vestite di nero, in un giorno misterioso dell’anno, gettano dei sassi nel mare nel punto dove si suppone dovesse trovarsi il principale simulacro della dea Tanit, e nel compiere questo strano rito si accompagnano con una nenia lamentosa pronunciando parole incomprensibili il cui significato si è perduto nella notte dei tempi, ma non il ricordo, quello vive nel “DNA” dei discendenti di quel popolo, un giorno lontano, potente e prosperoso.
Claudio Alessandri