Per farsi un’idea dei cibi che componevano una cena organizzata alla corte di Federico II, bisogna affidarsi alle cronache del tempo, sempre puntuali a descrivere nei minimi particolari tutto ciò che riguardava la vita mondana di una corte imperiale. Oltre ad esaltare l’abbondanza delle portate, queste cronache erano interessanti perché descrivevano, con dovizia di particolari, i prodotti provenienti dalla caccia e dai campi, allora ubertosi.
Nella cronaca da noi riportata, il piatto principale e più spettacolare era un enorme cinghiale ucciso dallo stesso imperatore, ed ecco quindi: “…l’enorme cinghiale trafitto dalla freccia dell’augusto imperatore, troneggiava, fumante sul desco ornato, per la cerimonia stessa e di lì a poco, consacrava con il suo sacrificio i natali della città. (Apicena, tradizione assolutamente errata).
E poi caprioli e fagiani arrostiti in intingoli fortemente aromatizzati, con pepe, garofano, cannella e zenzero; e le anguille delle piscarie di Alesinae fumiganti sugli spiedi, serviti in un letto di erbe di campo, con lampascioni e ravanelli in bella vista … arricchivano la mensa! Sull’ampia tavola, nei tinelli centrali, galleggiavano le bianche bufaline delle terremare nell’alveo del Fortore e Ripalta e le mozzarelle dei pascoli delle colline erbose di Fiorentino e Dragonare al limes; pur occhieggiavano le verdi olive delle colline di “Morsica” e “San Trifone”.
Le bionde piramidi di arance di Rodi e Vico troneggiavano in uno alle cascate di uva bianca e nera del Casone di San Severo e alle corpose castagne dei boschi a piè di monte, in su verso “Crastate”, della “Foresta” o di “Castelluccia” sull’alto monte; si alternavano a quella specie di insoliti “globi terracquei”, disposti qua e là, dei “meloni di pane” di Apricena, i “brutti e belli”, dal cuore rosa tenue e dalla corteccia verde arabescata nei grandi spicchi, che alitavano il profumo quasi afrodisiaco, intenso, degli ortivi nelle masserie della “Mezzana delle Querce” e delle “Quattro Porte” nel “Piano delle Poste”, prima di salire verso il Sacro Monte per le giogaie di Voltapianezza e di Stignano.
La notte tardava a morire!
Dagli orciuoli e barili scorrevano rutilanti nei “buccheri” i vini crudi delle colline di Troia e delle croste del “Casone”; la malvasia di “Rasini” e di “Terra majoris”, ancor più addolcite con miele, zucchero e noce moscata, accompagnava confetti ed uva sultanina sin alle prime luci del giorno. E già l’alba appariva dolce, là sulla chiostra di Monte Castello e di Cima Cardalicchio e verso l’insellatura del Passo dell’Ingarano… a lambire le erte mura della domus e specchiarsi nelle sue finestre screziate; a svegliare gli uccelli del giardino; ad accarezzare i primi convitati alla storica cena che si accingevano a ripartire, nel baluginio del primo sole, che accendeva in irreali volute dell’aria tersa del mattino – il respiro dei loro destrieri, pronti al galoppo per la Puglia piana, al ritorno nelle loro lontane magioni…”
Aveva inizio per il popolo siciliano un’era fulgida, di civiltà, cultura e benessere, infatti da un “brutto ceppo contorto” era nata “la luce del mondo”, “stupor Mundi”, “puer Apuliae”, quel Federico II di Svevia , figlio della “Gran Costanza”, che impresse il suo sigillo su di un periodo abbagliante che rimarrà nella storia, ma principalmente nel cuore del popolo da lui governato per splendore e giustizia, e anche per le tante leggende che un personaggio come Federico II ispirò in gran numero, a volte splendenti a volte tenebrose, ma egualmente affascinanti. Tutti coloro storici e non, interessandosi a questo poliedrico personaggio, ancor prima di esprimere un giudizio, negativo o positivo che sia, dovrebbero considerare che le leggende nate sul suo conto possono essere state ispirate solo da un uomo che ha caratterizzato la storia europea del XIII secolo traghettandola dal medioevo al rinascimento, nessun altro come lui.