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- L'UNITA' D'ITALIA, UNA RIFLESSIONE SULLE CELEBRAZIONI PER I 150 ANNI.

9 maggio 2010

di Claudio Alessandri

 Desidero dare il mio contributo ai festeggiamenti per le celebrazioni dei centocinquanta anni dell’unita d’Italia, pertanto, come primo e incontestabile commento, non posso astenermi dal rendere il giusto riconoscimento al sacrificio di migliaia di siciliani, politici, patrioti e gente comune, che contribuirono ed in parte “accesero la miccia” di una pagina indimenticabile della storia del Risorgimento italiano.
Molte sono le voci che oggi dissentono da una unificazione nazionale, territoriale e politica, che dopo più di un secolo e mezzo non ha ancora trovato quell’armonia indispensabile ad una vera e stabile unificazione, quella unità di intenti che tanti anni addietro giustificò un’avventura per molti versi irragionevole, fortemente contrastata dal re Sabaudo Vittorio Emanuele II e dal conte di Cavour che temevano di compromettere le trattative in corso con la Francia, una avventura gravida di rischi mortali.

Il mio modesto intento è proprio quello di ricostruire le fasi di una “avventura” che coinvolse tutte le regioni italiane sottoposte, fino ad allora e da secoli, alla tirannia di potenti e meno potenti Nazioni straniere, crudeli e dispotiche, unite unicamente dal preciso intento di tiranneggiare i loro sudditi mantenendoli in condizioni miserrime, sia culturali che economiche, per renderli facilmente “plasmabili” ai loro voleri di assoluta sottomissione.
Glissiamo, e non solo per ragioni di spazio, sulle vicende politiche e non che precedettero la spedizione garibaldina. In Sicilia si erano susseguite le ribellioni allo strapotere borbonico, ma mettendo doverosamente da parte la retorica, sgombro immediatamente il campo dai falsi entusiasmi che, propagandati per anni , hanno creato quell’alone epico che è valso a celare verità storica su di un avvenimento di immensa valenza per il raggiungimento della tanto auspicata unità d’Italia.

Il successo che premiò “l’impresa dei mille” non deve in nessun modo occultare le crudeltà e le innegabili violenze che dovette sopportare il popolo “minuto” siciliano, a tutto vantaggio degli interessi piemontesi e dei baroni del Regno delle due Sicilie che dalla cacciata dei Borboni non dovette lagnarsi gran ché. Quando si legge la famosa frase del “principone” riportata nel celeberrimo romanzo di Tomasi di Lampedusa, il Gattopardo, frase a mio parere illuminante a gettare un barlume di luce sul reale risultato della “spedizione garibaldina” che recita più no meno:”Bisogna che tutto cambi affinché nulla cambi”, frase osannata come un capolavoro filosofico letterario; o non si comprese o non si volle capire il reale significato di quella “sentenza”, cioè, a mio parere, il culmine di una verità che rasenta l’esaltazione della forma peggiore di cinismo che mente umana potesse elaborare, viceversa con tenitrice di verità assoluta.
Infatti nulla mutò per le “classi alte” dell’Isola, ma quel che è peggio nessun cambiamento in positivo si verificò per le classi più deboli, anzi il sottostare alle leggi piemontesi, fu per i siciliani una vera iattura. Il popolo siciliano che partecipò ai vari moti rivoluzionari versando fiumi di sangue sperando nel definitivo riscatto da secoli di dominazioni straniere, presto dovette constatare con immenso dolore che nulla era mutato nella realtà isolana, tranne l’occupazione di un nuovo “padrone straniero” solo apparentemente dal volto umano.

In tutto ciò Garibaldi non fu colpevole, da uomo d’azione dalle straordinarie capacità militari e di aggregazione di uomini, ma principalmente di idee, fece fino in fondo quello che gli suggeriva l’immenso desiderio di libertà e giustizia, rimanendo egli stesso, in fine, vittima delle trame di politici consapevoli, fin dall’inizio, di avere un’unica meta, la sottomissione dell’Italia intera alla Casa dei Savoia, fatti salvi i “diritti” inalienabili del potere temporale dei Papi e del clero tutto, posti sotto l’ombrello protettore dell’imperatore francese.
Era di già accaduto, parecchi secoli innanzi un simile tentativo, unificare l’Italia sotto un unico potere politico e legislativo, Federico II di Svevia non fu “lungimirante” al pari dei “Savoia”, toccò i nervi più sensibili del papato, reclamò per se il potere temporale, fu la sua rovina e quella dei suoi discendenti e dopo lo svevo l’Italia rimase sottoposta a varie dominazioni straniere ancora per secoli, i diplomatici piemontesi, primo fra tutti il conte di Cavour “tirò le redini” all’eroe dei due mondi quando questi era prossimo a sferrare l’attacco definitivo al potere papale. Ancora ai nostri giorni, molti storici asseriscono, senza alcun dubbio ne tentennamenti che, a ritardare l’unità d’Italia di molti secoli, fu l’atteggiamento sconsiderato dello “Stupor Mundi”, non invidio le loro certezze.  

Fra poco ricorrerà il cento cinquantenario dell’Unità d’Italia, mentre a Roma si torna a parlare di federalismo, bisogna notare che per i siciliani di un tempo Garibaldi rappresentò una vera e propria Icona, nelle case dei contadini e non solo, i quadri di San Giuseppe, della Madonna e del Bambin Gesù erano affiancati da quello del “barbuto eroe dei due mondi”.
Se penso a questo particolare il mio risentimento verso i responsabili politici e non che hanno approfittato della buona fede dei siciliani per proseguire nei loro affari, diviene tanto acuto da giungere a sconsigliare qualsiasi festeggiamento, forse l’unico uomo che merita realmente un monumento è proprio Garibaldi che subì la violenza politica come la subirono i siciliani e che ancora oggi subiscono l’atteggiamento prevenuto di gran parte dei “fratelli italiani”.
Fra questi, in prima posizione, i rappresentanti politici del movimento “Leghista” che ostentano avversione verso Garibaldi e l’unità d’Italia, ma che in compenso riconoscono e menano vanto di un certo Alberto da Giussano, eroe lombardo esistito solo nella fantasia di un modesto  cronista.   
 
articolo del 9.5.2010 siciliainformazioni.com 
 

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