- MESSINA CAPITALE DEL REGNO - L'ASPRA DISPUTA CON PALERMO.
17 maggio 2010
di
Claudio Alessandri
Può accadere, molto raramente, che cercando tra centinaia di libri, in polverose librerie dove vendono libri usati, di scovare qualche testo, trascurabile al primo sguardo, ma che, ad una attenta analisi, riserva delle gradite sorprese.
Non di rado, nel XVIII secolo, qualche studioso, ma sarebbe più consone dire erudito e “topo di biblioteca”, rinvenendo qualche scritto inedito, pensava bene, possibilmente a sue spese, di trarne un saggio e darlo alle stampe, con scarsi o nulli risultati pratici, per non parlare di quelli economici, non dando a noi la possibilità di venire in possesso di notizie altrimenti destinate a rimanere per sempre tra la polvere di qualche scaffale di misconosciute librerie padronali.
Che la vita sociale e politica della Sicilia, fatta eccezione per le dominazioni normanna e sveva, è cosa nota e storicizzata, per sua sfortuna non godette mai di lunghi periodi di pace. Quando non era qualche popolo invasore a funestare la realtà isolana, erano gli stessi siciliani a creare motivi di disordine ed irrequietezza, qualche volta incomprensibili, altre, più comprensibili, per acquisire importanza politica e sociale, o ancora per ben più utilitaristici motivi pratici come, ad esempio, essere esentati da tasse, gabelle o imposizioni varie.
In questa pragmatica speranza si distinse la città di Messina che per molti anni insidiò a Palermo il titolo di Capitale del Regno. Rifacendoci alla “memoria” del Canonico Rosario Gregorio viceversa, se ne ricava l’inequivocabile diritto di Palermo a fregiarsi del titolo di Capitale del Regno; pur non volendo insinuare dei dubbi sulle motivazioni esposte dal Canonico Rosario Gregorio, qualche dubbio rimarrebbe legato alle origini natali dal Gregorio, nato e cresciuto a Palermo e che quindi avrebbe avuto tutto l’interesse a sostenere i privilegi della sua città natale ed a confutare le ragioni dei messinesi, sia adducendo serissime motivazioni storiche, che mettendo alla berlina i messinesi che, concludeva, non avevano alcun diritto di origine storica, sia accampando privilegi inesistenti e per fare ciò, macchiandosi senza pudore, del reato di “falso”.
Sempre il Canonico Gregorio, quasi a suggello delle sue ragioni storiche, introduce una notizia che nulla cambia nella narrazione che stiamo per iniziare; Qualche diritto a fregiarsi del titolo di Capitale del Regno era Siracusa che fu la prima città di Sicilia nel periodo Greco ed in quello Bizantino, ma terminata l’influenza di Bisanzio, Palermo succedette a Siracusa e da quel momento in poi ebbe il primato che le conferiva, senza alcuna possibilità di smentita, la storia ufficiale e non basata su argomenti cervellotici se non, addirittura, inventati di sana pianta.
Ad iniziare dai primi giorni del XV secolo e sino a che la Sicilia fu governata direttamente da vari re, la Capitale del Regno fu sempre Palermo, nessun altra città rivendicò il titolo di Capitale del Regno poiché, fin dalla fondazione della Monarchia in Sicilia e successivamente quando il Parlamento di Salerno stabilì che il normanno Ruggero II doveva essere riconosciuto re, fu stabilito che la più importante città del Regno era Palermo che divenne il luogo abituale per l’incoronazione dei re, sempre questa città diveniva la sede dove avrebbero dimorato i re, la sede del Governo e dei magistrati più importanti.
In effetti a Palermo vennero incoronati tutti i re Normanni, Svevi ed Aragonesi. Questa consolidata consuetudine venne violata una sola volta quando il dominio Aragonese era stato fortemente indebolito dall’affermarsi ed espandersi della influenza dei Chiaramente; questa potentissima famiglia fu sul punto di esautorare la monarchia ed impossessarsi del Regno. Per scongiurare i grandi pericoli che si prospettavano per la monarchia, vari re dovettero essere ospitati in luoghi diversi e sicuri, normalmente nella città di Catania e proprio all’ombra dell’Etna trovò una tranquilla accoglienza re Martino, almeno fino a quando cacciati ed in gran parte giustiziati i componenti della nobile e potente famiglia dei Ventimiglia, Martino tornò ad occupare la residenza reale di Palermo, in questa stessa città pose dimora sua moglie, la regina Bianca quando Martino la nominò Vicaria del Regno.
Fu allora che, per la prima vota, i messinesi avendo visto la città di Catania elevata a rango reale, avanzarono la proposta perché anche la loro città godesse il privilegio d’ospitare il re, e fu sempre allora che fecero istanza a Martino in tal senso nel 1396 e più precisamente, finché a Palermo non fosse ristabilita la pace, le cerimonie di incoronazioni reali, avvenissero a Messina.
Il re non diede parere positivo alla proposta messinese perché l’ordine politico ed amministrativo della Sicilia non subisse dei cambiamenti inopportuni e molto probabilmente destabilizzanti; contrari alle antiche consuetudini, ed in più non accettò la corona regale fin quando non fosse riconosciuto re di Sicilia ed incoronato nella chiesa Cattedrale di Palermo.
Alla morte di Martino II, non vi erano eredi che potessero rivendicare lo scranno regale e, in più la Sicilia era percorsa da pericolosi disordini. I messinesi reputarono propizio il tempo di tornare a richiedere quei privilegi che da tempo sostenevano con indomabile vigore e inopportune iniziative ritenute ogni qual volta mendaci.
L’occasione favorevole si presentò nel 1413 durante una riunione del Parlamento in Taormina per l’elezione del nuovo regnante; i messinesi che vi parteciparono fecero in modo di porsi in evidenza per ottenere dei titoli importanti e determinanti nel Governo che sarebbe stato costituito, ma la Nazione compatta non riconobbe alcun titolo di primaria importanza ai rappresentanti della città del “Faro”.
Ancora una volta Messina, con cocciutaggine inopportuna, visti i fallimenti precedenti, non desistette dalle sue pretese egemoniche esponendole con chiarezza nel Parlamento ospitato a Catania e convocato dal vice re Cardona nel 1478, in quella sede prestigiosa non usarono mezzi termini ed avanzarono la richiesta di riservare loro la precedenza nei riguardi di Palermo. La richiesta non era cosa da poco e necessitava della massima attenzione ed una successiva riflessione approfondita.
Il Sacro Consiglio esaminò, senza nulla trascurare della richiesta messinese, vennero sviscerati tutti gli atti solenni, i titoli pubblici ed avendoli posti a confronto dell’antica osservanza, emise una sentenza che giudicò solennemente che solo Palermo doveva essere la prima città della Sicilia.
Incredibile a credersi, ma i messinesi digerita l’ulteriore sconfitta, si convinsero che per potere avanzare ancora una volta il riconoscimento dei loro diritti con qualche speranza di essere accolti favorevolmente, avrebbero dovuto esibire dei nuovi documenti e titoli, diversi dai primi che erano stati giudicati falsi e volgarmente inventati di sana pianta. Una considerazione obiettivamente cervellotica poiché, se questi ultimi, ovviamente falsi come i primi, per quale assurda ragione i messinesi speravano in un valido riconoscimento di documenti, ancora una volta, falsificati?
Quel che è certo, nel secolo XV iniziarono a essere resi noti nuovi titoli, come decreti, bolle, diplomi e privilegi e cronache mai esibite in precedenza che venivano rivelate solo in occasione di questa rivendicazione. Nessuno scrittore o ricercatore di archivi e biblioteche avevano avuto mai nozione di quegli scritti.
Vennero mostrati due decreti della Repubblica Romana, una bolla di Arcadio, due diplomi dei re Ruggeri e Guglielmi, documenti allegati ad una cronaca intitolata: “Istoria della liberazione di Messina”.
Invariabilmente tutti questi nuovi titoli risultarono compilati in date diverse, come diversi erano i giorni, eppure si “incastravano” perfettamente e tutti concordavano nell’assegnare a Messina il titolo di Capitale del Regno, ma ciò che era più importante, quel titolo esentava la città dello Stretto, da qualsivoglia gabella, dazio e da qualunque futura tassazione.
La pretesa di Messina si ripetè tre volte, in vari periodi del diciassettesimo secolo ed ogni volta si verificarono contese aspre, a volte violente. La prima volta si ebbe un vero e proprio scontro nel 1612 in occasione dell’imposizione, da parte del Viceré Duca D’Ossuna, di una nuova tassa sulla produzione e commercializzazione della seta, attività vitale per i messinesi che volevano essere esentati da quell’inopportuno gravame, ma non utilizzarono in quel frangente delle motivazioni d’ordine pratico, ma sempre, ostinatamente facendosi forti dei loro mai ritenuti validi, privilegi.
L’atteggiamento dei messinesi venne confutato con vigore da Palermo, si cimentarono in questa “grafica tenzone” scrittori che non rivestivano alcuna ufficialità, intervennero regi ministri con varie scritture, alle quali i messinesi si opposero, sempre con documenti vari, sostenendo le loro sacrosante ragioni.
Non ottennero alcun risultato valido, ma lungi dal desistere, fattisi più coraggiosi, i messinesi rinunciarono all’idea di privare Palermo del titolo di metropoli, ma tentarono, ancora una volta, percorrendo una via che ritennero più agevole.
Nel 1630 ebbero l’ardire di proporre alla Real Corte di Madrid, la suddivisione del Regno in due parti, una ad oriente con a capo Messina e l’altra occidentale con a capo Palermo. Iniziò un fitto scambio di missive che avevano per oggetto, incredibilmente, i privilegi da accordare a Messina.
Uno di questi saggi è giunto tra le nostre mani e ritenendolo di notevole importanza storica, pur essendo coscienti che non abbiamo a che fare con una rarità, senza dubbio a conoscenza di molti storici, in particolar modo delle vicende siciliane, abbiamo ritenuto opportuno ricostruire il testo scritto dal Comm. Vito La Mantia e dato alle stampe nel 1898 che si ispira ad uno studio del Canonico Rosario Gregorio, (1) studi che rimasero inediti fino al 1898 quando videro la luce grazie al La Mantia con il titolo: “Sugli antichi privilegi di Messina e sulle ultime controversie (1741-1800) per titolo di Capitale del Regno”.
La nostra ricostruzione, pur attenendosi scrupolosamente al testo originale, lo ha reso di semplice e facile lettura, privato da uno stile molto lontano dai nostri giorni, una prosa fiorita, ma poco comprensibile nel suo “sviluppo floreale”.
La proposta non trovò accoglimento favorevole da parte dell’intero dominio, dal Parlamento e dalla superiore decisione del re, ma i messinesi non si diedero per vinti, anzi furono lesti a cogliere l’occasione che si presentò loro nel 1649 quando a Palermo si manifestarono gravi disordini, considerando il grave pericolo al quale era esposta la famiglia reale, fecero di tutto per ottenere che il Re e tutta la reggia venissero ospitati a Messina per diciotto mesi, da ripetere durante il triennio del governo.
Lo scopo dei messinesi era sempre lo stesso, creare dei privilegi quali presupposto a far dichiarare la loro città Capitale del Regno, a questo scopo comparvero ancor più numerose che in precedenza nuove stampe e scritti vari, nonché marmi con scritte che testimoniavano il diritto di Messina a fregiarsi di quel titolo, lapidi e monumenti pubblici, tutti recanti scritte di egual tenore cioè recanti l’appellativo attribuito a Messina quale Capitale del Regno.
Comparve persino il titolo di “Protometropolis”, tale indicazione era una scoperta allusione al “decreto di Appio”, alla “bolla di Arcadio” e per finire ai privilegi dei Ruggeri e dei Guglielmi, a completare l’opera comparve un sigillo della città che riportava una incisione che indicava in Messina, per decreto del popolo normanno, Capitale del Regno.
Il tentativo dei messinesi appare stranamente ingenuo poiché tutti gli scritti, i monumenti pubblici che giustificavano le pretese messinesi, sono fin troppo evidentemente scritti o costruiti nello stesso tempo dei vantati privilegi, addirittura posteriori dato che tutte le testimonianze grafiche o monumentali comparvero a metà del 1600, e la maggior parte nel 1700.
I messinesi non intendevano demordere dal rivendicare il loro preteso titolo di “Capitale del Regno”, anzi dopo la sconfitta si impegnarono ancor più a procurarsi, poco importava come, nuovi documenti. Proprio in quel frangente a ridare vigore alle pretese messinesi, giunse a Messina nel 1465 e ne divenne cittadino il famosissimo Costantino Lascari che, dal suo arrivo in città divenne popolarissimo ed osannato nell’ambito letterario per avere ritrovato, a suo dire, alcune scene della Bacchidi di Plauto, presso una libreria di Messina.
Dalla sua scuola venne partorito il decreto di Appio Claudio, e contemporaneamente apparve un numero incredibile di decreti, di bolle e di vari privilegi. Ben presto però tutti quei documenti si dimostrarono totalmente inventati e per di più il tentativo di imbroglio divenne evidente esaminando il testo della lettera che accompagnava quei nuovi atti, il decreto di Appio Claudio citava due Consoli che non erano mai stati citati contemporaneamente nella storia delle vicende consolari o scolpiti nei marmi capitolini.
Il colmo del ridicolo lo raggiunse colui che fece compilare il decreto nel quale si leggeva testualmente: “primo bello punico Rempublicam conturbante”; quindi il compilatore doveva essere dotato di facoltà divinatorie poichè era a conoscenza che, quando venne compilato il documento, dopo la prima guerra punica ne sarebbero seguite altre due. Lo stesso stile semplice e lineare dei modelli romani, in quelli adesso esibiti a sostenere le presenti ragioni dei messinesi, differiva in modo lampante, si trattava di uno stile involuto, in uso nel 1600-1700.
In egual modo venne disconosciuta la “bolla di Arcadio” del 407 che testimoniava di avvenimenti mai riportati dall’intera storia bizantina. Narrava di attacchi pirateschi portati da Agareni e Bulgari che non erano stati ancora visti depredare l’Impero. Conferiva Arcadio il titolo di “Orbe Monarchia” e provocava ilarità la concessione fatta a Messina di Protometropoli della Sicilia e dell’intera Magna Grecia che comprendeva un buon tratto del Regno di Napoli, una volta catturati dal vortice, le bugie e le invenzioni cervellotiche non ebbero più limiti.
A rafforzare i loro, pretesi, diritti resero pubblici i due privilegi emanati dai due Ruggeri e confermati dai Guglielmi, il tutto a dare forza e veridicità a tutti gli atti fino ad allora resi pubblici, si aggiunge una Storia della liberazione di Messina che, affermava con assoluta certezza, era collegata alla storia della conquista Normanna della Sicilia, tutti i documenti però mostravano date diverse di compilazione anche se era evidentissimo lo stile adottato rivelatore di identica mano, se non bastasse la loro “storia” differiva in molti particolari importanti da quella scritta dal Malaterra che di quegli avvenimenti era stato testimone, conseguenza logica, o era falsa la storia del Malaterra o quella esibita, in questa occasione, dai messinesi.
La verità fu evidente quando le autorità messinesi, esibendo tutti quegli atti, chiesero di essere esentati da ogni tipo di tassa, gabella ed altro ancora, visto che gli atti fino ad allora esibiti tendevano, con mal celata evidenza, di poter godere di quei privilegi.
Tutte queste vicende negative per le pretese dei cittadini dello Stretto, avrebbero fiaccato la volontà più accanita, ma non fu così, le rivendicazioni proseguirono con il massimo accanimento, ovviamente comparvero altri decreti, dove si citava immancabilmente Messina quale Capitale del Regno e marmi e monumenti si aggiunsero ai numerosi già esistenti nella città che avevano rivelato sopra ogni ombra di dubbio, la loro ridicola falsità. Queste nuove testimonianze vergate con la penna o scolpite nel marmo, ebbero un particolare impulso nel 1612, 1630 e 1649, senza ottenere mai un riconoscimento inequivocabile. Nessun dispaccio dal quale si potesse dedurre il diritto di Messina a fregiarsi del prestigioso titolo di Capitale del Regno, ne dichiarata ne chiamata mai “Capitale”.
Ai messinesi nelle funzioni pubbliche toccò sempre il secondo posto, ma essi proseguirono, mai convinti della assurda follia delle loro pretese e, per di più aumentò il loro sforzo nel formulare nuovi documenti, titoli nuovi, lapidi scolpite diffuse per tutta la città, anche se il verdetto finale fu sempre impietoso dichiarandole, senza dubbio alcuno false.
Tanto ardore per la storia patria, finì per tramutarsi nella delirante convinzione di essere vittime di una tremenda ingiustizia, il risultato si tramutò in una manifesta, delirante follia. Negli atti ufficiali i messinesi chiamarono la loro città: “Fiore dell’Europa, Monarchessa del Mondo, stabilissima Repubblica il cui governo aristocratico aveva diritto di soprintendere ai regi ministri”, frasi tratte dai discorsi del Mirello e dati alla stampa nel 1649, in Venezia, data evidentemente falsa.
L’indefessa ricerca di prove dei messinesi di sempre nuovi privilegi per definirsi Capitale del Regno, ebbe un brusco arresto nel 1674quando ebbe inizio la loro rivolta nei confronti dei re spagnoli, una ribellione che costò molto cara alla città dello stretto, in un attimo la febbrile attività nel reperire sempre nuove testimonianze per avvalersi della supremazia nei confronti della nemica Palermo, si spensero le pretese ma anche le future speranze, convinzione che non tenne conto della disperata testardaggine dei messinesi che, trascorsi pochi anni e tornata una pace dolente, risuscitarono i fantasmi di un tempo.
Dal 1674 i cittadini messinesi non avanzarono più pretese di predominio e evitarono scrupolosamente l’utilizzo dei titoli sbandierati sino ad allora e per loro sfortuna quei titoli tanto desiderati invece di tornare a loro utili, si mostrarono poco efficaci a lenire tutti i guai che seguirono alla loro , forse giusta, ma infausta ribellione.
Eppure quel silenzio che durò per lunghi settanta anni , tornò a fare udire l’antico suono molesto delle mai sopite rivendicazioni di Messina, questo inaspettato risveglio fu causato dal trattato di pace sottoscritto da Porta per i messinesi e dal Re Cattolico, nel 1740, nel tratto nel quale si ragionava del Console Ottomano e la residenza che avrebbe abitato in città, Messina venne chiamata Capitale. Dopo anni ed anni di esibizioni di documenti falsi, per assurdo era il primo atto autentico che elevava Messina a Capitale del Regno.
Non sappiamo se si trattò di un errore involontario dello scrivano, o se lo stesso venne indotto a scrivere quel termine a seguito di lauto compenso conferito da fantasiosi messinesi, fatto sta che quella “svista” diede nuova linfa ai mai esausti cittadini dello stretto, che ridiedero inizio alle loro pretese.
Dal 1740 al giugno 1749 le patenti di Sanità del Senato messinese si fregiavano ininterrottamente del titolo di Senatus Nobilis et exemplaris urbis Messanae Reginsque Consiliarius. Il 25 giugno dello stesso anno venne pubblicata una patente recante la seguente dicitura: “Noi il Senato della nobile, esemplare e felicissima città di Messina capitale del Regno di Sicilia Reg.Con.”, a completare il tutto, all’interno del documento vi era scritto: “Messina nobile et Regni Caputo”.
Ovviamente Palermo che vigilava da tempo si premurò di fare presente al re Carlo II questo ulteriore, patetico, tentativo dei messinesi e questi con una comunicazione alla Segreteria di Grazia e Giustizia, questo il 4 ottobre del 1749 dispose che la Città e Senato di Messina rispettassero, nel citare i titoli che le appartenevano, mantenessero quanto in precedenza senza introdurre nuovi titoli che, per di più, non spettavano.
Messina era esasperata dai continui fallimenti per ottenere i privilegi che le sarebbero spettati quale Capitale del Regno e ormai stanca del governo spagnolo, nel 1674 si ribellò ed assaltata la guarnigione spagnola, la cacciò dalla città subendo inevitabilmente la reazione degli iberici che rafforzati da altre truppe, pose d’assedio la città.
Si rinnovarono le nobili gesta da parte dei messinesi quando resistettero coraggiosamente al tremendo urto dell’esercito dei francesi di Carlo d’Angiò, divenendo determinanti nella vittoria finale in quella che passerà alla storia come la “Guerra del Vespro”.
Questa volta però, nonostante gli atti di eroismo, i messinesi non avrebbero potuto resistere all’esercito di un Impero potente militarmente come quello spagnolo. Si risolsero a chiamare in loro soccorso i francesi, i quali accorsero in aiuto della città dello Stretto, la resistenza agli spagnoli durò quattro anni che costarono ai messinesi grande dolore ed immani sacrifici, ma nulla poterono quando nel 1678, con la pace di Nimegia, Luigi XIV abbandonò Messina, dimostrando una crudeltà senza limiti, alla inevitabile vendetta iberica.
Quasi tutti i nobili della città che erano stati valorosi difensori di Messina e, nel contempo, coloro che cacciando gli spagnoli, avevano decretato la loro probabile, tremenda fine, abbandonarono i ricchi possedimenti terrieri ed ogni altro avere ed imbarcatisi sulle navi francesi andarono, rassegnati, verso l’esilio.
Gli spagnoli rioccuparono la città trovandola spopolata, tristemente silenziosa, Madrid si vendicò dei messinesi che essendosi ribellati alla Spagna, vennero puniti con l’accusa di “lesa maestà”, con questa sentenza senza appello ne decretò la morte civile; tutti i privilegi e le istituzioni compresa l’università, vennero abolite, sull’area che ospitava il Palazzo Pretorio che era stato raso al suolo, fu ordinato di gettare del sale, rinnovando il tremendo gesto dei romani che, nello stesso modo, avevano atterrato l’orgoglio e la velleità di Cartagine.
A ben riflettere, desta meraviglia che una città potesse reclamare diritti inesistenti senza incorrere in alcuna sanzione o condanna penale. E’ possibile che i dettami del Diritto vigente in quel tempo, nel Regno di Sicilia, non contemplassero alcuna norma in tal senso, evenienza possibile, ma incredibilmente negativa per la Sicilia che poteva vantare un primato nel campo legislativo durante le dominazioni normanna e sveva, culminate con l’emanazione del Codice Melfitano, subito chiamato e conosciuto con il titolo di “Liber Augustalis”.
Vero è che morto Federico e la tragica scomparsa dei suoi figli, tutte le sue leggi caddero in disuso tornando, tornando in auge quella ridda di leggi locali, usi e consuetudini che la vicenda tra Messina e Palermo, abbia assunto l’aspetto di un “affare” privato fra quelle due città, insomma una semplice diatriba che esulava da un eventuale giudizio punitivo d’ordine legale.
La fine crudele, ma inevitabile di Messina destò un grande eco che si diffuse, quale monito, in tutta l’Europa. Il sogno, perché era tale, di grande potenza, Messina nel risvegliarsi si avvide dell’imprudenza, ma tornare indietro ormai non si poteva, l’unica soluzione valida era quella di stare in attesa dei futuri eventi, i cosiddetti “corsi e ricorsi” della storia.
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A rendere meno arida questa ricostruzione, citeremo una tradizione del popolo palermitano che narra di una spedizione dei messinesi nei confronti dei palermitani.
La tradizione vuole che un nutrito gruppo di messinesi giunse a Palermo nottetempo e approfittando delle tenebre, si recarono nella piazza del pretorio, dove sorge la splendida fontana chiamata, per la nudità delle sue statue, “Fonta delle vergogne” e con un martello spezzarono il naso a tutte le statue, poi sempre protetti dalle tenebre se ne tornarono a Messina.
Se l’avvenimento sia reale o no, non lo sappiamo, quello che è certo, tutte le statue di piazza delle vergogne recano evidente il restauro del naso spezzato e riattaccato con un evidente intervento.
(1) Il canonico Rosario Gregorio da inizio al suo saggio con una serie di severissime affermazioni nei confronti dei maggiorenti messinesi che, a più riprese e per lunghi periodi esibirono una serie considerevole di titoli, di ogni provenienza e natura, per dimostrare il sacrosanto diritto di quella città di fregiarsi “Capitale del Regno”. L’accusa del Canonico è impietosa poiché tutte quelle attestazioni vennero regolarmente dichiarate false o, nel migliore delle ipotesi, notevolmente dubbio.
Il titolo tanto ambito da Messina di fregiarsi come Capitale del Regno, non comportava esclusivamente dei benefici formali, ma accordava ad essa assoluta esenzione da tutte le gabelle, dai dazi e da qualsivoglia altra tassazione. Come è subito evidente l'interesse di Messina non era puro desiderio di emersione sociale, ma mirava chiaramente a ben più materiali interessi, la qualcosa appariva tutta ingarbugliata e tormentata vicenda, cosa meschina e moralmente indegna.
articolo del 17.5.2010 italiainformazioni