- ROBERTO STELLUTI, IL RITORNO DELLA CLASSICITA' NELL'ACQUAFORTE.
27 marzo 2010
di
Claudio Alessandri
Spesso un grande artista, sconosciuto anche agli addetti ai lavori, si rivela grazie all’intuito di una “mente” splendida che fa emergere dall’anonimato artisti dalle grandi capacità, ma colpevolmente ignorati dai “soliti mercanti” attratti più dal guadagno facile ed immediato che dalle opere di pittori, certamente valide, ma celate al vasto pubblico in attesa di una intuizione disinteressata, ma estremamente felice di contribuire di fare emergere dalle brume maligne dell’interesse commerciale, dei veri e propri fenomeni, in positivo, dell’arte figurativa.
Questa attesa in un Limbo di incertezze, non ha risparmiato Roberto Stelluti, le cui opere incisorie, tecnicamente ineccepibili, richiamano alla mente i “classici” di un nobile passato quali Altdorfer, Rembrandt e Seghers, tutti specchiati in un genio dell’incisione quale fu August Dorè.
Oppure i moderni Jean–Pierre Velly, Ennio Calabria, Ugo Attardi, Piero Guccione e Renzo Vespignani; nomi famosi ed amati ai quali noi teniamo ad accostare quelli di Carla Horat, Edo Janich o Vincenzo Piazza.
Io ebbi il piacere di ammirare le opere di Roberto Stelluti parecchi anni addietro, grazie all’interessamento di un grande letterato ed esperto d’arte, lo scrittore Leonardo Sciascia che, lungo uno dei tanti percorsi del suo instancabile girovagare alla ricerca di sempre nuove ispirazioni, si imbatté in questo splendido artista, e dall’alto della sua fama lo giudicò e segnalò alle Gallerie d’Arte più famose.
Una intera “tiratura” di questo straordinario artista nato, quasi una misteriosa precognizione, a Fabriano dove ancora oggi crea le sue opere, giunse a Palermo per interessamento dello stesso scrittore, destinazione una famosa galleria del capoluogo siciliano frequentata assiduamente da Sciascia e dalla gran parte della più raffinata “intellighenzia” palermitana. Era evidente l’intenzione di allestire una mostra, ovviamente, ma i vari fogli vennero acquistati dai collezionisti prima ancora dell’allestimento della personale e Roberto Stelluti sarebbe rimasto una rilucente meteora se, ormai famoso, non fosse approdato ad altre gallerie palermitane meno famose della prima, ma evidentemente curate da galleristi più intelligenti.
Dopo avere avuto lo straordinario privilegio di assistere alla nascita di un “grande” dell’incisione, ho continuato a seguire il suo cammino artistico, un cammino ricco di riconoscimenti, la mia non è stata lungimiranza, ma semplicemente “logica”.
Roberto Stelluti sarà, ospitato, dal 26 marzo al 15 maggio dalla Galleria d’Arte Don Chiosciotte di Roma, lo stesso luogo che ospitò l’artista ai suoi esordi. La mostra si compone di venti opere, per la massima parte incisioni più alcuni disegni a matita, l’insieme rimanda ad una atmosfera antica, lontana nel tempo e, purtroppo, nell’ispirazione di “discepoli distratti”, non tendo conto della difficoltà di una tecnica che presenta enormi difficoltà di esecuzione.
L’artista si ispira a tutto ciò che esprime bellezza, ma non esclusivamente a quella che deriva dalla perfezione delle forme scaturite da un canone estetico codificato, racchiuse in strettoie che l’arte, liberamente intesa, non può concepire ne sopportare in una libera evoluzione di concetti e di ispirazione.
A riprova di quanto da me affermato, Stelluti si sofferma su delle immagini apparentemente disadorne, inquietanti nel loro disarmonico abbandono, quale si riscontra in un complesso industriale in disarmo, nulla di più triste nel suo significato di abbandono produttivo accettato con tristezza da operai che avevano riposto nel loro lavoro, non solo la sicurezza economica per loro e per le famiglie, ma anche la passione nell’essere partecipe di un benessere generale che adesso si rispecchia in capannoni diruti, in travi “rosicchiati” dalla ruggine e nel silenzio, un tragico silenzio foriero di pianto e disperazione.
Roberto Stelluti dedica eguale cura nel riprodurre un fiore o un reperto industriale, una sua lastra comporta circa tre mesi di lavoro, non è lentezza è riflessione, è coscienza di non eseguire solamente un’opera d’arte, ma di dispensare bellezza e nel contempo un gentile invito a curare la crescita di un girasone, in egual modo di far rivivere quei capannoni che, se produttivi, esprimeranno vitalità, suggeriranno felicità nell’armonia di tante vite, di tante speranze per un avvenire privo di nubi temporalesche.