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- L'UOMO CHE CATTURAVA IL VENTO -

24 luglio 2010

di Claudio Alessandri

L’UOMO CHE CATTURAVA IL VENTO
 
Conobbi quel cuoco per puro caso, ero stato mandato in missione, per motivi di lavoro per conto di un importante giornale del nord, dovevo scrivere un servizio senza fronzoli sulle cause che avevano provocato la chiusura di moltissime solfare, la conseguente rovina economica di ricche famiglie che, in brevissimo tempo, avevano perduto enormi fortune soppiantate immediatamente dagli stessi capi mafiosi dei quali si erano serviti per secoli nel controllo spietato dei minatori e dei contadini impegnati nella cura di immensi latifondi.
Mi trovavo in un piccolo paese di montagna, poche case e pochi abitanti, moltissimi erano emigrati quando le miniere di zolfo, non più produttive, erano state chiuse, chi era andato a lavorare in Piemonte, moltissimi alla Fiat, chi in Germania ed in Belgio, questi avevano proseguito il lavoro nelle miniere di carbone data la loro grande esperienza acquisita nelle solfare, per moltissimi anni i più giovani appartenenti alle famiglie ricche proprietarie delle miniere di zolfo, e che si erano recati all’università della Capitale dopo la laurea erano andati via anche loro, avevano dovuto abbandonare il paese natale, abituati a vivere da parassiti, erano incapaci, quasi una malattia congenita, nel dare vita ad altre attività produttive.
 Erano “sciamati” in ogni angolo del mondo, alcuni affermandosi nella politica distinguendosi per la grande capacità di continuare a depredare la gente della loro isola, altri accolti dal generoso ventre delle Americhe dove si erano imposti nella mala vita organizzata, altri lavorando per tutti e molti affermandosi onestamente in vari campi, alcuni divenendo famosi e ricordati, con i loro nomi, nelle più importanti opere frutto del loro lavoro o della fama di politici illuminati ed integerrimi.
Avevo trovato alloggio presso una locanda che si trovava sulla piazza del paese, era un accomodamento modesto, ma la proprietaria una signora di mezza età mi aveva accolto con una tale gentilezza che mi aveva fatto accettare volentieri la piccola stanza imbiancata con la calce, il lettuccio di ferro battuto ed il canterano di vecchia fattura.
 In compenso regnava su tutto la massima pulizia che comprendeva il pavimento in cotto rosso, la poca mobilia e le lenzuola, cuscino e coperta tutto di un candore abbacinante; l’unica cosa che non fui in grado di accettare fu una cornice di legno laccata di nero che, dalla parete di fronte al letto, mostrava un uomo ed una donna, sicuramente sposi, vestiti con abiti modesti di foggia ottocentesca, l’uomo poi dava l’impressione che mi fissasse con aria severa, accentuata da due enormi baffoni a “manubrio”, pregai la signora di liberarmene e lei lo fece immediatamente senza chiedere spiegazioni.
Io d’altro canto non ero propenso a fornirne poiché quella strana fobia risaliva agli anni della mia infanzia quando mi trovavo da mia nonna materna a Ferrara e venivo lasciato solo sul lettone matrimoniale nella stanza semi buia poiché i pesanti “scuri” erano chiusi per non fare entrare la calura dei pomeriggi di agosto, ufficialmente avrei dovuto fare il sonnellino pomeridiano, ufficiosamente mia mamma cercava di avere un po’ di tranquillità dopo una intera mattina a corrermi dietro.
 Proprio sulla parete di fronte al letto era appesa una grande cornice nera, di forma ovale, dalla quale mi fissavano i miei bisnonni, Vincenzo e Palmira, mi fissavano con aria severa e più mi soffermavo su quei volti, più avevo la sensazione che quei visi incupissero sempre di più ed iniziassero, staccandosi dalla parete, a venire verso di me con aria minacciosa. Finiva regolarmente in un mio urlo di terrore e mia mamma accorreva trafelata non riuscendo a spiegarsi il motivo della mia paura, ne io glie lo dissi mai, ma da quei lontani giorni avevo evitato sempre di avere nella stanza da letto simili residuati di quella specie di “rispetto amoroso” di fine ottocento.
La piazza di quel paese non era molto vasta, proporzionata al modesto abitato, in compenso non mancava nulla che fosse consueto nelle grandi piazze, vi era la chiesa, il municipio, una trattoria ed un bar con pochi tavolini al suo esterno con alcune sedie che ospitavano pochi uomini anziani che giocavano a carte in religioso silenzio, ovviamente non mancavano i bicchieri per il vino che attendeva al centro del tavolo dentro una misura da un litro..
La caratteristica dominante di quel paese era il silenzio, una sensazione che in un primo momento mi causò un certo disagio, abituato come ero al frastuono della grande città. Quel silenzio però, una volta accettato come piacevolmente naturale ed in ogni caso inevitabile, mi fece riscoprire dei suoni che mi erano familiari da bambino, quando abitavo in campagna nella grande casa colonica dei miei nonni paterni, dispersa nella vastità immota della Bassa Padana, il canto degli uccelli, il calpestio dei pochi passanti sostituiva il rumore indistinto dei contadini che si recavano nei campi coltivati a granturco, il lontano clangore dei campanacci delle mucche condotte al pascolo.
La notte però cessati quei suoni esplodeva il rumore del silenzio, o meglio, i rumori che solo grazie a quel silenzio profondo si potevano udire, lo scricchiolio delle vecchie travi del soffitto della mia stanza, l’insopportabile “raschio” “dell’orologio della morte” dei tarli che pazientemente stavano svuotando dall’interno il cassettone, qualche volta uno schiocco violento di qualche mobile che si assestava subendo l’effetto del caldo o del freddo; se tutto taceva nel mio cervello si insinuava un boato che, inconsciamente, mi terrorizzava anche se sapevo che altro non era che il sangue che fluiva con flusso vitale nelle mie vene.
Per i primi due giorni all’ora di pranzo e cena mi adattai con un panino e tanta frutta, la padrona della locanda notò quel particolare e subito intervenne in mio soccorso ritenendo quel comportamento una mia ritrosia a chiedere dove trovare un luogo, anche se modesto, per desinare “come facevano tutti i cristiani” precisò la locandiera con un leggero tono di rimprovero, facendomi intendere, con la gentilezza di una mamma premurosa di averle fatto un torto che non meritava, mi invitò a seguirla, mi condusse fino alla vicina trattoria e mi presentò il padrone che fungeva anche da cuoco e la moglie che lo aiutava in cucina e badava ai pochi tavoli di quel minuscolo “ristorante”, si raccomandò sul trattamento da riservarmi e fatta una breve chiacchierata con il cuoco-ristoratore, stabilimmo un contrattino “in parola”, prima colazione, pranzo e cena, ci accordammo subito sul costo e dopo un caloroso “arrivederci” ci accomiatammo.
Non occorsero molti giorni per abituarmi all’atmosfera ovattata di quel piccolo paese, tanto diverso dal frastuono della città dalla quale provenivo. A poco a poco la mia naturale ritrosia a stare fra altre persone cominciò a smorzarsi e non mi dispiaceva trascorrere qualche ora seduto al tavolino del bar a sorbire un buon caffè bollente, un caffè dal sapore deciso come il suo colore di saio fratino, non tristemente ambrato come quello che ero abituato a sorbire in fretta al mattino all’abituale bar nei pressi dell’ufficio dove lavoravo, di gusto indefinito come la città industriale e laboriosa del nord Italia che mi era venuta a profonda noia.
La vita dei paesani trascorreva in grande tranquillità, a pensarci bene forse troppo tranquilla, mai un furto, una qualsiasi violenza meno che mai un delitto e dire che il paese era troppo piccolo per ospitare una casermetta per i carabinieri a garantire quella strana atmosfera da “isola felice” in una Terra governata più che dallo stato dalla mafia, da quella dei latifondi e delle miniere a quella delle “grandi opere” finanziate dalla Cassa del Mezzogiorno che elargiva notevoli somme per la realizzazione di strutture faraoniche, in modo particolare dighe ad alleviare la sete secolare di quella terra.
Dighe che accoglievano le precipitazioni piovose e lentamente davano vita a laghi imponenti, è necessario però precisare un particolare di notevole importanza, alcuni di questi invasi non sono mai stati collegati con le tubazioni idonee a trasportare l’acqua nelle campagne e nelle case e quando il livello diviene troppo alto e rischia di debordare i tecnici aprono le chiuse a lasciano che l’acqua defluisca nel mare.
Quella grande tranquillità più che impressionarmi positivamente, mi insospettiva, non mi trovavo in un paese svizzero, eravamo al centro di una grande isola dove il vivere tranquilli poteva significare che la mafia era sempre presente e quella tranquillità altro non era che terrore per la conseguenza che avrebbe potuto comportare uno “sgarro” ad un amico degli amici.
Passava il tempo e non succedeva nulla di eclatante tanto che pensai di essere colpevolmente prevenuto come lo erano tutti gli isolani che venivano al di fuori dall’isola, per vari motivi e poi, quando dovevano tornare nelle loro regioni dove avevano trovato un lavoro, lasciavano il loro cuore su questo lembo di terra sperduto nel mare, ma benedetto dal Creatore.
Andavo regolarmente a mangiare presso la trattoria dove aleggiava una piacevole atmosfera familiare. Il cuoco – proprietario era un omone robusto, non grasso, ma di stazza considerevole, nonostante ciò si muoveva fra i pochi tavoli con una eleganza che poteva sembrare femminea, ma bastava osservarlo per fugare ogni dubbio. Era di un riserbo quasi, eccessivo tanto che forzando la mia natura da “orso” fui io a rompere il silenzio ed iniziare una conversazione al principio banale, poi sempre più interessante ed intensa.
Non occorse molto tempo per rompere il ghiaccio e, giorno dopo giorno, i nostri colloqui divennero sempre più confidenziali; non che il cuoco si impegnasse in affermazioni che potessero fare comprendere le sue tendenze, da quelle politiche a quelle religiose, ma da qualche frase cominciai a capire di non trovarmi davanti ad uno sprovveduto.
Per quanti tentativi facessi rivelando alcuni particolari della mia vita nel tentativo di vincere la sua reticenza, ottenevo solo un sorriso enigmatico che segnava immediatamente la fine del colloquio.
Ero stizzito e curioso, alla fine ricorsi alla padrona dell’albergo, quando gli chiesi del cuoco, mi fissò con aria interdetta, compresi immediatamente che voleva dirmi qualcosa, ma permaneva in lei quel tanto di diffidenza che la costringeva al silenzio. Io non mollai e la signora, dopo avermi fatto promettere che quello che mi avrebbe detto sarebbe rimasto sempre un segreto fra me e lei, si decise a parlare.
Vede, mi disse quasi sussurrando, quell’uomo è una onestissima persona, buono come il pane, innamoratissimo della moglie, ha la fedina penale pulita, cosa rara in quel paese, ma… si interruppe come a volere sottolineare la gravità di quanto stava per rivelarmi… il cuoco era l’unico “comunista” del paese, l’ultimo rimasto ad avere guidato i contadini all’occupazione delle terre che facevano parte degli immensi latifondi che avevano coltivato per secoli per conto dei vari baroni, ricevendo in cambio un “pugno di grano” e botte da orbi se osavano lamentarsi, i più riottosi ad adeguarsi a quell’ordine immutabile sparivano nel nulla.
Il cuoco, incorruttibile, era rimasto in paese, e gli “amici” non lo perdevano mai di vista , era talmente “locco” che era capace di fare qualche “bestialità”, poi la signora soggiunse con tono atteggiato ad assoluta indifferenza, non avevano mai fatto danni di avvertimento alla trattoria, sapevano che i contadini non avrebbero sopportato che gli avessero fatto del danno, lo amavano e rispettavano come un santo, ma in silenzio. Si erano limitati a fare trovare al cuoco, appeso ad un albero, per il collo, il suo stupendo cane bracco che lui amava più di un figlio addestrato per la caccia, tanto bravo che tutti i cacciatori del paese glie lo invidiavano, mi guardò fisso per osservare la mia reazione ed aggiunse: sa come è uno sgarbo così ad un cacciatore…dopo avermi fatto promettere il silenzio, non tornò mai più su quell’argomento.
Io che venivo da una grande città della Romagna, non compresi nella sua interezza la gravità di quella appartenenza politica, compresi però la gravità dell’uccisione del bracco, anche la Romagna era popolata da cacciatori accaniti e tutti disposti a fare uno sproposito nei confronti di chiunque avesse provocato il benché minimo danno al proprio cane che, affermavano con sicurezza, era il meglio addestrato di tutta la Romangna.
Riflettendo in seguito mi fu chiaro il rischio che correva quel poveretto, anche se il tutto mi apparve eccessivo, mi ripromisi di studiare un po’ della storia recente di quei luoghi, zona di grandi latifondi e di rivendicazioni contadine che proprio nell’organizzazione e rivendicazione dei comunisti avevano trovato la forza ed il coraggio di sostenere che la “terra doveva appartenere a tutti”.
Le giornate trascorrevano quiete, forse sarebbe meglio dire monotone, ma erano realmente tranquille.
A riflettere bene anche se era così, per me almeno, tutto era nuovo e meritevole di osservazione e di riflessione, dal fruttivendolo a l’omino che una volta la settimana giungeva con la “scoppiettante Ape” dallo costa lontana, la dove si scorgeva l’ultima fascia di terra ferma che si immergeva lentamente nel mare di colore blu intenso.
Sia il fruttivendolo che il pescatore lanciavano il loro grido “pubblicitario”, vantavano la loro mercanzia, almeno così intuivo perché dal loro “abbanniare” non si capiva una parola, ma io rimanevo in ascolto affascinato da quell’urlo modulato, cantilenante tanto simile a quelli lanciati dai mercanti della Kasba, nei Paesi nord africani, nessuna meraviglia dato che durante i duecento e più anni di dominazione araba dell’isola, il grido dei mercanti aveva la stessa strana cantilena che udivo adesso e se chiudevo gli occhi, venivo trasportato come un in sogno in paesi lontani, sia nello spazio che nel tempo, erano momenti di rapito incantamento qualcosa di nuovo e sconvolgente per me nato e cresciuto in una regione dove, per prima cosa si insegnava ai fanciulli il massimo legame con la realtà, tutto doveva essere programmato per una vita produttiva, i sogni erano una perdita di tempo.
A poco a poco gli abitanti del paese cominciarono ad allentare la loro posizione di cortesie da “auto difesa” nei confronti di quell’oggetto estraneo al loro mondo e che aveva causato, certo incolpevolmente, una atmosfera di discreto nervosismo. Non fu un cambiamento immediato, si iniziò col salutarmi con rispetto, poi con maggiore trasporto, magari accompagnando il saluto con un sorriso, poi vi fu uno scambio di impressioni sul tempo, il raccolto del grano e la resa delle olive ed il fatto che io prestassi ascolto facendo qualche commento appropriato consentì un disgelo quasi totale, perché “quasi”? Perché quando tentavo un accenno alla situazione politica o qualche delitto di mafia accaduto in un paese vicino, il volto dei miei interlocutori si incupiva, dalle loro bocche non usciva più una parola, tranne per un breve e rapido saluto prima di allontanarsi velocemente per un improvviso impegno, dicevano che avevano ricordato all’improvviso.
L’unico che nell’affrontare questi argomenti non ammutoliva era il cuoco, non che commentasse con lunghe riflessioni le mie affermazioni, ma manifestava in ogni caso con brevi affermazioni le sue convinzioni politiche, non alla luce del sole, ma come ammantate da un velo di voluta timidezza, nonostante ciò per me erano egualmente esaurienti.
Andò a finire che sempre più spesso mi recavo alla trattoria anche quando non era ora del pranzo o della cena; il cuoco sembrò gradire da subito la mia presenza, probabilmente avevo conquistato la sua fiducia e quindi, finalmente, un interlocutore dal quale non doveva attendersi qualche spiacevole sorpresa, parlavamo, ma non disse mai una parola che fuoriuscisse dalla quotidianità, mai una lamentela e meno che mai una pur innocente rivendicazione.
Intanto nel paese permaneva una calma totale, nei paesi più o meno vicini, si contavano numerosi i morti ammazzati per mafia, la qualcosa acuiva ancor più i miei dubbi sulle motivazioni della “calma piatta” in paese, chiedere ai paesani, nemmeno a pensarlo, lo stesso cuoco accennava ad una guerra di mafia che doveva sancire l’elezione di un nuovo capo di una cosca alla quale era venuto a mancare il boss a causa di una scarica di “lupara” che non gli aveva lasciato scampo, aggiungendo nel mostrare un placido sorriso che nell’isola i cambi al vertice delle “famiglie” non avvenivano necessariamente a morte avvenuta del boss, ma molto più praticamente con una scarica di pallettoni, ma se cercavo di approfondire l’argomento il cuoco ricordava di avere qualche pietanza sul fuoco che rischiava di bruciarsi e si allontanava velocemente con stampato sul volto un sorriso, questa volta enigmatico.
Poi, un mattino, appena uscito dalla nebbia del sonno, udìi un chiacchiericcio concitato che proveniva dalla piazza, strano, pensai, non era mai accaduta una cosa simile, l’accaduto doveva essere grave. Mi lavai e mi vestii velocemente, inutile negarlo, la curiosità mi divorava, quando apri il portone di casa e sbucai all’esterno, la curiosità raggiunse l’apice, la piazza, normalmente deserta a quell’ora, quella mattina era stranamente animata, i paesani erano riuniti in vari crocchi e più che parlare agitavano le braccia, facevano strani cenni con le mani o la testa si alzavano e si abbassavano in un irrefrenabile movimento di assenso.
Chiesi alla mia padrona di casa che nel frattempo era uscita a sua volta sulla piazza, la cagione di una tele stranezza, tanta gente non l’avevo mai vista. La padrona di casa mi prese per un braccio e mi condusse distante da orecchie indiscrete, poi più che parlare sussurrò, non priva comunque di aver gettato un rapido sguardo a destra e poi a sinistra per essere certa di non essere udita da nessuno.
“Hanno ammazzato in campagna Don Biagio”, a me quel nome non diceva nulla, la donna lo comprese e provvide ad informarmi senza omettere alcun particolare, disse: “Don Biagio era un mafioso, ma non uno qualunque era, come usava dire “un pezzo da novanta” e l’averlo ammazzato era fatto grave, gravissimo, e poi c’era una cosa molto strana – Don Biagio era stato trovato in posizione supina, i pallettoni della lupara gli avevano devastato il torace, ma non era questa la cosa strana, Don Biagio mai e poi mai poteva essere considerato un confidente dei carabinieri, un così detto “panza molla” eppure gli avevano messo un sasso sulla fronte, non in bocca come usava, no sulla fronte “che voleva significare?” –
Avevo sentito parlare di quel “rito” spaventoso, il sasso in bocca si metteva a colui che aveva rivelato i segreti dell’organizzazione, ma sulla fronte non aveva senso, esternai il mio dubbio al cuoco, ma anche lui non comprendeva quel gesto però, questa volta aggiunse una considerazione che non mi sarei aspettata da un uomo che fino a quel momento aveva dimostrato estrema prudenza, disse e il suo tono di voce divenne cavernoso come a sentenziare una condanna irrevocabile, dottore, disse o in bocca o sulla fronte poca importa, l’importante é che un “figlio di troia” era stato tolto di mezzo.
Poi scomparve in cucina lasciandomi a bocca aperta. Del delitto se ne parlò, ma sarebbe meglio dire se ne sussurrò, per molti giorni, come molte furono le supposizioni, che il “fatto” fosse legato alla mafia vista la personalità del morto, non vi erano dubbi, ma quel sasso posto sulla fronte, quello si che era e rimaneva incomprensibile, di supposizioni nemmeno a parlarne, si sarebbe potuto pensare che “qualcuno” supponendo sapesse qualcosa, meglio farsi i fatti propri e poi i carabinieri che ci stavano a fare , che se la sbrigassero loro, non erano pagati per questo? Allora che si dessero da fare , tanto loro non rischiavano nulla, ma sapevano perfettamente che quella non era la realtà; la loro era solo una acrimonia connaturata nel profondo dei sentimenti nati ed accresciuti nel tempo da quando Garibaldi era giunto in Sicilia facendo pensare, finalmente, alla libertà ed invece avevano dovuto subire angherie di ogni specie per poi essere “consegnati” senza averli consultati prima come sarebbe stato giusto fare in democrazia a nuovi “padroni”, a quei piemontesi che avevano badato a non dispiacersi quegli stessi baroni che li avevano sfruttati da secoli e che adesso potevano agire impunemente al riparo della legge, una legge piemontese per l’appunto, tranne poi ad avvalersi dei servigi della mafia quando la “cosa” era troppo sporca e correvano il rischio di “lordarsi le mani”.
Trascorse un mese senza che accadesse nulla di eclatante, poi, un mattino, stessi rumori e scena d’un mese innanzi, avevano trovato morto, su una strada di campagna Don Filadelfio, noto mafioso, lo stesso cerimoniale di prima, una rosata di lupara in pieno petto ed un sasso posto sopra la fronte.
Questa volta dalla capitale arrivarono i pezzi grossi della polizia e dei carabinieri, gli accertamenti durarono un po’ più a lungo della volta precedente, ma il risultato fu deludente, tutti gli sforzi non approdarono a nulla.
In paese comunque apparvero individui che non avevo mai visto, si aggiravano senza una meta apparente, qualche volta si fermavano a parlare con qualche paesano, più che parlare, tutto il dialogo si svolgeva con movenze facciali, dalle labbra al naso, ma in modo particolare con gli occhi che si spalancavano e si chiudevano, supposi per rispondere si o no in risposta a domande poste dai loro interlocutori.
Presto, comunque, anche quella invasione silenziosa diradò sensibilmente per poi cessare del tutto.
Dal mio amico cuoco non speravo ricevere qualche “dritta” e se accennavo una domanda che esulava dalla normale conversazione, la reazione del cuoco era sempre eguale, si scusava educatamente, ma aveva una pietanza che stava per bruciare e scompariva veloce nel buio antro della cucina e sul suo volto aleggiava un sorriso “sfottente” che mi innervosiva e parecchio, ma che fare.
Allo scoccare del trentesimo giorno ecco ripetersi la scena del mese innanzi, avevano ucciso un altro mafioso , Gramigna, ma questa volta non si trattava di un don era però il braccio destro di quello ucciso il mese prima.
Lo avevano “fulminato” sempre in piena campagna , una rosata in pieno petto e poi anche questa volta, il sasso poggiato sulla fronte. Le forze dell’ordine questa volta affluirono più numerose del mese innanzi, dai loro volti tesi era evidente lo scoramento per non riuscire a venire a capo di queste “esecuzioni anomali”. Erano esasperati, nessuno appiglio per la scientifica ed i “soliti” portati in caserma, giuravano e spergiuravano di non sapere nulla di quello che stava succedendo ed erano sinceri, come evidente era la loro paura, non capivano e per una volta nel corso di tanti secoli di assoluto controllo del territorio, ogni certezza era sfuggita dalle loro mani e presto, forse, il sasso sulla fronte sarebbe toccato ad uno di loro.
Io avevo rinunciato a chiedere lumi al cuoco, non intendevo espormi, ancora una volta, a quel sorriso sarcastico, era un atteggiamento di scherno per la mia ingenuità? Oppure era l’unico in paese a conoscere la verità?
A distanza di un mese dall’altro seguirono altri sette “esecuzioni”, sempre con identiche modalità, una rosata di pallettoni in pieno petto ed un sasso posato sulla fronte. Dalla città giunse un numero spropositato di componenti le forze dell’ordine, nulla, il mistero tormentava tutti, tranne me, io ero un “polentone” estraneo a quelle vicende , eppure non potevo fare a meno, per quel po’ di esperienza che avevo, a fare supposizioni che, in ogni caso, non approdavano a nulla.
Comunque dopo il decimo delitto non ve ne furono altri, trascorsero i mesi e ancora nulla, nel frattempo venni a sapere che i mafiosi che l’avevano fatta franca, erano scomparsi di scena, avevano preferito scegliere un esilio volontario ad una probabile scarica di lupara.
Il tempo trascorreva monotono e tutti avevano ripreso le loro attività, tutti sembravano più sereni, alcuni addirittura sorridevano, rischiavano di brutto.
Poi accadde un episodio che segnò per sempre la mia esistenza; ero andato alla trattoria per pranzare ed il cuoco dopo avermi servito un bel piatto di spaghetti alla “Norma”, si diresse ciondolando verso l’ingresso del locale, uscì e si fermò a guardare il cielo, le nuvole erano alte e sfrangiate, annunciavano l’arrivo del vento che, da lì a poco, giunse a disperdere le numerose foglie che ingombravano la strada senza risparmiare l’ingresso alla trattoria.
Il cuoco ristette per qualche minuto a godere la frescura portata dal vento, all’improvviso ebbe un moto impaziente, era evidente che le foglie che si disperdevano tutto in torno lo infastidivano e parecchio.
Si voltò di scatto e rientrò nel locale a lunghi passi raggiunse la cucina e scomparve, riemerse brandendo una pesante ramazza e sempre a lunghi passi tornò fuori dal locale e subito si mise a scopare le foglie radunandole in vari mucchietti; non aveva fatto i conti con il vento che dispettoso disperse le foglie per ogni dove.
Il cuoco ebbe un gesto di stizza, raggiunse un cumulo di brecciolino poco discosto, si trovava in quel luogo per qualche riparazione stradale, ne raccolse una grande manata e cominciò coscienziosamente e con metodo a posare un sassolino su ogni foglia.
Osservavo la scena e non capivo, alla fine non potei fare a meno di alzarmi e raggiungere il cuoco e chiedergli perché stesse facendo quell’assurda operazione, finì di deporre i sassolini sulle foglie senza degnarmi di una spiegazione, quindi si voltò verso di me e con voce bassa, ma chiara disse: “Lo vede lei stesso, io raduno le foglie, ma loro scappano, disse proprio “scappano” aiutate dal vento e questo da secoli e non potrò mai catturarle e distruggerle tutte, quindi le fermo con un sassolino una per una, poi, quando saranno tutte in mio potere e nessun vento potrà giungere a liberarle, le brucerò in maniera che non possono più sporcare il mondo; il prossimo anno ne arriveranno altre, ma io di sassolini ne ho tanti e continuerò a catturarle e proseguirò a bruciarle e continuerò, anno dopo anno, fino a quando sarò in vita e queste “male piante” si stancheranno di fare foglie per appestare il mondo, si interruppe e prima di riprendere il suo strano lavoro, mi guardò fisso e sul suo faccione pacifico comparve un largo sorriso di compiacimento, poi mi disse: “E’ d’accordo con me? Io lo guardai e non potei fare a meno di rispondere con un sorriso che sbalordì me stesso nel momento che, insieme alle foglie, venivano bruciati tutti i miei principi di persona “civile” ereditati da secolo di costrizioni morali, da quelli legali a quelli religiosi, morali, ma inconsciamente a quella domanda risposi: “Si”!.

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