- I BAMBINI DELL'ASPRA
11 agosto 2008
di
Claudio Alessandri
Uno dei crimini più efferati, in ogni epoca, è sempre stato quello che coinvolge dei bambini. Quando apprendo e ciò avviene sempre più di frequente della sparizione di qualche bambino sento riaprirsi una vecchia ferita, mai rimarginata del tutto, mentre dall’angolo più remoto della mia mente riemerge spaventoso un episodio che mi vide partecipe, seppure indirettamente, tantissimi anni addietro.
A quel tempo ero un giovane che sognava di divenire un “cronista di nera” un giornalista di quelli “tosti”. Ovviamente il sogno rimase tale, ma non si spense del tutto. Mentre la vita di ogni giorno “spingeva” i miei passi, verso orizzonti più “terra terra”, una normalità che non annullò in me il desiderio di “sondare” un mondo, quello del crimine, che ho sempre considerato “parallelo” a quello “legale”; l’uno opposto all’altro, inconciliabili eppure indivisibili; appunto il bene ed il male una “parabola biblica” tragica ed immutabile.
Quando ebbe inizio l’evento che avrebbe condizionato la mia vita, rendendomi vulnerabile a tutto ciò che attiene i bambini e le loro “fragili” menti e membra, scrivevo per un periodico di Palermo, nulla d’importante ma per me, era nelle intenzioni, solo l’inizio, un mezzo “umile” che mi avrebbe permesso di “spiccare il grande volo”.
Un giorno di novembre del 1970, si diffuse rapidamente la notizia della misteriosa scomparsa dal paese marinaro di Porticello, di un bimbo di appena nove anni, il suo nome, Giovanni Bellia, risuonò trasportato dal concitato “tam - tam” della gente del luogo, ovviamente prima che se ne impadronissero gli organi di informazione.
Le ricerche ebbero inizio rapidamente e, polizia, carabinieri e corpi speciali dei vigili del fuoco, esclusa a priori la richiesta di riscatto dato che la famiglia di Giovanni era poverissima, le ricerche si indirizzarono, in modo particolare, verso i numerosissimi anfratti del luogo e, contemporaneamente, in mare, già immaginando una conclusione tragica delle ricerche che durarono parecchio tempo. Poi, non raggiungendo alcun utile risultato, fu abbandonato ogni tentativo e di Giovanni non si seppe più nulla, si era volatilizzato, dissolto come una nube catturata dal vento freddo di quell’inverno del 1970.
L’episodio riportò alla mente del direttore del periodico per il quale scrivevo, un altro fatto con il crisma del mistero, verificatosi nel 1968; in un altro centro marinaro non lontano da Porticello, Aspra. Il collegamento anche se improbabile, lo spinse a darmi l’incarico di elaborare una ricostruzione di quell’evento.
Mi misi subito in azione, conscio delle difficoltà che avrei incontrato ma, nel contempo fermamente deciso a condurre in porto una “pagina” nuova, se non utile, almeno originale di quel lontano, tristissimo avvenimento.
I tre bambini frequentavano la locale scuola elementare, Domenico D’Alcamo di nove anni, Vincenzo Astorino di undici anni e Giuseppe La Licata di nove anni. Il 9 maggio, ultimate le lezioni scolastiche, si diressero verso le loro abitazioni, fin quì tutto nella normalità, ma poi, cosa accadde? Perché i tre bambini non fecero più ritorno ai loro genitori?
Ovviamente le indagini prima di allargarsi su vasto raggio, si concentrarono nei luoghi più prossimi all’abitato di Aspra.
Dalle prime indagini svolte dagli inquirenti, risultò che i bambini si recarono nelle grotte di S. Isidoro, segnalazione fatta da un piccolo compagno di scuola e della zia Maria, anziana del luogo che si procurava un piatto di minestra vendendo caramelle ed altri piccoli oggetti, tra i quali dei lumini come quelli che venivano accesi in chiesa dai fedeli, che asseriva di avere venduto un lumino al piccolo La Licata. L’ubicazione delle grotte di S. Isidoro (le famose grotte dei Saraceni) è posta in una zona impervia, per cui l’accessibilità si limita solo ad alcune di esse, quindi solo ventiquattro, tra centinaia di antri, furono meticolosamente esplorati dai vigili del fuoco.
Le grotte di S. Isidoro, conosciute da sempre dagli abitanti del luogo con l’appellativo di: “grotte dei Saraceni” perché si tratta di antiche cave “ipogee” di tufo “coltivate” dagli arabi per l’edilizia, come si usava fare fino a non molti anni addietro, non sono facilmente accessibili. Ed ecco sorgere i primi dubbi, le prime incertezze, perché fu accertato che, su centinaia di antri solo ventiquattro furono scandagliati accuratamente.
Difficoltà d’accesso o no, bisognava andare sino in fondo alle indagini, perché non fu fatto? Valutazioni errate o frettolose lasciarono uno “strascico” di dubbio che non venne mai chiarito.
Fra l’altro, gli abitanti di Aspra, in considerazione dei traffici non leciti che si svolgevano regolarmente in quei luoghi “difficilmente accessibili” cominciarono a sussurrare che i bambini nel recarsi in quelle grotte, avrebbero potuto vedere qualcosa che “non dovevano vedere” e qualcuno aveva provveduto a zittirli per sempre.
Un’opinione come tante altre non da escludere a priori ne dare per certa perché era chiaramente suggerita da “leggende metropolitane” mai acclarate da fatti inoppugnabili.
In quella triste vicenda l’impegno delle forze dell’ordine fu totale, probabilmente dettato dalla pietà per i tre bambini scomparsi e per le loro famiglie disperate; a distinguersi maggiormente, per impegno ed abnegazione, furono i vigili del fuoco, dato che ci si trovava in presenza di centinaia di profondi anfratti e del vicino mare. Nulla, dei tre bambini non si seppe più nulla.
Alla ricerca di notizie dettagliate di quei giorni tragici, mi recai ad intervistare il colonnello Busacca che, all’epoca dell’evento coordinò le ricerche; in qualità di comandante dei vigili del fuoco di Palermo.
Il colonnello Busacca ci accolse con estrema cortesia e mi rilasciò una lunga intervista che ritengo riportare integralmente come venne pubblicata sul periodico con il quale collaboravo nel periodo 14 – 20 novembre 1970: “Effettivamente non tutte le grotte furono esplorate ma non per incuria, si sa che in quel luogo vi sono grotte a centinaia, parte naturali, altre create nel tempo dall’uomo che in quei luoghi cavò pietre per molti anni in cave coperte.
Pur sapendo però, che oltre alle grotte da noi esplorate, ve ne erano delle altre, né noi né gli abitanti del luogo ne conoscevano l’esatta ubicazione.
Quelle da noi esplorate presentarono non poche difficoltà, infatti molte di esse si intersecano formando un vero e proprio labirinto ed i ricercatori si ritrovarono più volte nel luogo dal quale erano partiti, si dovette ricorrere ai segnali sulle pareti per non continuare a girare in tondo, perdendo tempo prezioso.
Per quanto riguarda la presenza in alcune grotte da noi esplorate, di gas venefici, notizia diffusa allora dai giornali, devo dire che per la verità, non si trattava di gas venefici, direi piuttosto aria mefitica. Fui avvertito dall’ing. Cimino, trasferito in seguito a Cagliari, che allora dirigeva personalmente le ricerche, che in alcune grotte particolarmente strette, vi era pericolo di intossicazione per mancanza di ossigeno. Provvide allora di inviare delle bombole corredate da lunghi tubi, che i pompieri si trascinavano dietro nei passaggi più stretti, in molti casi dovettero procedere carponi e strisciando.
Nonostante non si siano lesinati gli sforzi nelle ricerche condotte nelle grotte – è sempre il colonnello Busacca che parla – umanamente non si può escludere che i tre bambini siano rimasti prigionieri in qualche grotta tra quelle che né noi né gli abitanti del posto conosciamo. Per quanto riguarda, invece, prosegue il colonnello Busacca, il bagno di mare ed il loro eventuale annegamento non è da escludere la ipotesi che i tre bambini abbiano scoperto qualche cosa che non dovevano scoprire e che quindi si sia fatto in modo che buttati in acqua non tornassero più a galla”.
Il racconto del colonnello Busacca mi lasciò allora ed ancora oggi nel dubbio: non tutti gli anfratti furono esplorati, d’accordo sulle difficoltà di orientamento, ma le bussole, le bussole non erano state ancora inventate da Flavio Gioia? Ed i contatti radio? Ho la sensazione ancora oggi che, a tanto impegno dei soccorritori, non corrispose un valido coordinamento. Il racconto del colonnello Busacca, mi parve lacunoso ed oggi, rileggendolo ho la spiacevole sensazione che le ricerche non furono condotte con criteri altamente professionistici, piuttosto da volenterosi, ma sempre “confusionari” boy scaut.
E la “tenuta del marchese”, inaccessibile come una fortezza, venne al fine controllata? Ricordo che allora e per molto tempo ancora, la mamma di uno dei bambini sostenne che la “tenuta del marchese” non era stata esplorata anche se era quasi certa che i tre piccoli si stavano recando in quel luogo.
Più per scrupolo che per altro “girai” quell’affermazione al colonnello Busacca, che rispose: “Mi ricordo di quel luogo, è proprietà privata, recintata, vi è anche un guardiano, era necessario un permesso per entrarvi. Nonostante ciò la polizia vi è entrata, ma alcune grotte erano chiuse, le altre non presentavano alcuna traccia, neanche di animali, cosa che invece era stata notata più volte nelle altre grotte”.
“Alcuna traccia” … “cosa che era stata notata più volte nelle altre grotte”; colonnello, quando dichiarò quello che io ho riportato, si rese conto dell’enormità di quella asserzione? E no, colonnello, l’assenza di tracce, anche di animali, non escludeva che i tre vi fossero entrati, ma faceva supporre che quel luogo era frequentato da esseri umani che precludeva la presenza, ovviamente di animali.
Ed ecco, in assenza di certezze, comparire “l’ombra minacciosa” degli zingari. Si disse, erano stati visti recentemente gironzolare per il paese di Aspra.
Su questa ipotesi e su altre, interpellai il vice questore Vittore che, all’epoca dei fatti, diresse la polizia nelle ricerche, il vice questore mi dichiarò che: “Tutte le ipotesi sono buone e sono costantemente seguite. Per quanto riguarda “la tenuta del marchese” posso dichiarare che tutte le grotte furono esplorate, non se ne è trascurata nessuna. I pozzi sono stati scandagliati, uno addirittura della profondità di settanta metri è stata esplorata da esperti e specialisti del Club Alpino Italiani.
Per quanto riguarda poi, la presenza o meno nelle grotte, di armi da fuoco, posso dire soltanto in un pozzo molto profondo è stato trovato un vecchio fucile risalente all’ultima guerra, tutto arrugginito”.
Il mio ricordo ed il racconto si potrebbero fermare qui; dei tre bambini non si ebbe più notizia, ma per la mia esperienza personale, non era ancora finita perché, dopo pochi giorni dalla pubblicazione dell’articolo, i genitori dei tre bambini si precipitarono in redazione. Fraintendendo la mia ricostruzione, si erano convinti che io “qualche cosa dei loro bambini” la dovevo sapere.
Davanti a quel volti segnati da un dolore immane che io, senza volerlo, avevo rinfocolato, mi sentì “come un verme” che, soddisfatto del lavoro ben svolto, avevo trascurato l’aspetto umano della vicenda e fatta questa considerazione non me lo perdonai mai.
In me quel dolore si rinnova bruciante ogni qual volta gli “organi di informazione” comunicano la sparizione di qualche bambino. Allora rivedo come in un incubo quei genitori, il volto scavato dagli stenti e dal dolore nei loro poveri abiti da pescatori più volte rivoltati, mentre attendono da me, con la fiducia dettata dalla disperazione, un parola di speranza che io, purtroppo, non fui ed ancora oggi non sono in grado di proferire.
Claudio Alessandri
articolo del 10.7.06 rielaborato per il giornale l'Asprense.
Olio di Renato Guttuso - Marina - Aspra -