La massima cura dei principi sanitari adottati dallo “Stupor Mundi” è testimoniata dall’inserimento nel “Codice Melfitano” di ben dodici titoli contenuti nel terzo libro, del Codice stesso, dedicati espressamente alle norme atte a disciplinare la sanità in tutto il vasto regno dello svevo. I dodici titoli hanno inizio con il XLIV (De probabili esperienza medicorum) e terminano con il LXXXIX titolo (De poema hominorum aliumo ccidentium diversis ex causibus).
E’ indubbiamente opportuno suddividere queste norme in due principali argomenti: disposizioni normative di deontologia connesse all’attività medica e norme estremamente severe attinenti il controllo da parte di organi di polizia sanitaria.
A tutti i sudditi, senza alcuna limitazione razziale o religiosa, come specificherò in seguito, Federico II consentiva l’esercizio della professione medica pretendendo però una preparazione estremamente scrupolosa.
Uno studio approfondito richiedeva, inizialmente, tre anni di “logica” e successivi cinque anni di studi specifici presso l’Università di Salerno, famosa per questo tipo di studi e l’unica del regno deputata all’insegnamento della medicina.
L’apprendimento della parte teorica era affidata allo studio dei testi scritti da Ippocrate e Galeno, mentre lo studio pratico riguardava la chirurgia. Alla conclusione del corso degli studi che era durissimo e fortemente selettivo, l’allievo doveva sottoporsi al giudizio di una commissione i cui componenti erano professori della medesima università
Quando il candidato alla professione medica veniva considerato idoneo, riceveva un attestato di laurea non nella forma attuale, ma costituito da “lettere testimoniali”, ogni esaminatore esprimeva per iscritto il suo giudizio e l’insieme dei pareri, se coincidevano, equivalevano alla, così detta, laurea.
Non era finita, dopo l’autorizzazione ad esercitare la professione medica, il neo laureato doveva effettuare un tirocinio di un anno presso un medico di specchiata esperienza. Terminato l’anno, oggi diremmo di specializzazione, doveva affrontare un altro esame da sostenere davanti ai commissari della Curia Regia e delle Curie Provinciali.
Superato questo ostacolo ultimo, ma particolarmente gravoso, il nuovo medico riceveva la “Licentia Medendi” o “Praticandi” che gli consentiva di esercitare la professione medica in assoluta legalità ed autonomia.
Come scritto in precedenza, a nessun suddito veniva fatto veto di divenire medico. L’università salernitana era aperta anche a coloro che avevano condotto i loro studi al di fuori dal Regno, cosa inaudita per quel tempo, gli studi di medicina accoglievano anche le donne, quindi gli ebrei, in questo ultimo caso esisteva però qualche disposizione limitativa. I chirurghi dovevano essere massimamente esperti dell’anatomia umana che apprendevano direttamente esaminando i cadaveri. Questo studio accuratissimo doveva precedere qualsiasi intervento da eseguire su un paziente vivo. E’ ancora dibattuta dagli studiosi la possibilità di effettuare delle autopsie, evidentemente indispensabili a determinare con esattezza dove erano allocati i vari organi interni. In quell’evo e per molti secoli a seguire, una tale pratica era considerata un atto contro la legge degli uomini e quella divina e poteva comportare la pena di morte.
Ovviamente considerando la personalità estremamente speculativa di Federico II, si diffuse la notizia che l’imperatore eseguisse personalmente delle autopsie ed in modo particolare dell’apparato dirigente per rendersi conto dell’azione dei processi chimici che avvenivano nello stomaco durante la digestione. E’ chiaro che se ciò rispondesse a verità lo “Stupor Mundi” non avrebbe effettuato delle autopsie su cadaveri, ma vere e proprie vivisezioni, probabilmente su dei sudditi condannati a morte, cosa che non giustificherebbe affatto il gesto di estrema crudeltà.
Che questa notizia fosse vera, non si è mai dimostrato, ma venne sostenuta dai detrattori dell’imperatore e negata, ovviamente, dai suoi sostenitori. E’ molto probabile comunque che una tale eventualità rientrasse e rientri ancora ai nostri giorni, nel novero delle tante leggende “tenebrose” ispirate da una personalità certamente non comune, destinata per naturale tendenza umana a destare grandi prevenzioni o smaccata ammirazione.