- IL CARCERE PALERMITANO DELLA VICARIA - SOFFERENZE ED ABUSI.
5 ottobre 2009
di Claudio Alessandri
L’argomento che ci stimola ad una dolorosa riflessione è senza dubbio il dover constatare che molte delle lamentale che si levano dai reclusi, ai nostri giorni, fatte le dovute proporzioni di carattere legislativo, sociale, ed umano, sono strettamente connesse con una concezione più punitiva che rieducativa di coloro che, per vari motivi, popolano le nostre prigioni (Case Circondariali) sempre oltre la normale capienza, inevitabili gli inconvenienti scaturiti dall’eccessivo affollamento, alla promiscuità regolata, il più delle volte, dal boss di turno, mafioso, camorrista o della ndrangheta imparentati nel delinquere come nella mentalità distorta dal culto della violenza e dalla sopraffazione.
L’argomento da noi trattato fa riferimento ad avvenimenti verificatisi all’inizio del 1800, apparentemente lontani nel tempo, ma a ben riflettere legati dal comune intendere che ad un criminale, qualsiasi sia la sua colpa, è giusto infliggere una punizione che va al di là della già gravosa pena detentiva, il condannato per espiare la sua colpa, nel comune intendere doveva ed in parte deve ancora oggi soffrire anche fisicamente.
Già da molti anni nel nostro Paese è prevalsa la “ragione” del Diretto, giusto infliggere una pena proporzionata al crimine commesso, ma non con logica espiatoria per mezzo del dolore fisico e morale, ma con intento riabilitativo e rieducativo nel tentativo di dare la possibilità al condannato di riabilitarsi, riflettere sul reato commesso e possibilmente, scontata la pena, tornare nel consesso della società civile e riprendere un cammino nella legalità, abbandonata un giorno, a volte, per motivi d’ordine sociale, economico o mentalmente devianti. Non che le condizioni carcerarie attuali siano inappuntabili, ma certamente lontane anni luce da quelle che stiamo per descrivere.
Le notizie da noi riportate si riferiscono ad uno dei tanti episodi di carattere rivendicativo avanzati nei moltissimi anni della realtà rappresentata dalla “Vicaria”, il carcere per eccellenza di Palermo, non una delle tante prigioni esistite nella nostra città , nei vari secoli della sua storia, ma la più famosa ispiratrice di racconti orrendi, crudeli e a volte, per assurdo, ilari. Lamentele che sarebbe più esatto indicare come “suppliche” a onore del vero mai presi nella dovuta attenzione risolutamente dalle autorità di quel tempo, oppure parzialmente accolte e trascritte su documenti ufficiali, mai tenute in debita considerazione.
Dette notizie sono tratte da un rarissimo documento di proprietà privata, trascritto integralmente ed inserito nel corpo del saggio sulle carceri di Palermo, attraverso vari secoli, dallo studioso Antonino Cutrera nel lontano 1934.
Nel 1806, approfittando del trasferimento del re Ferdinando III di Borbone a Palermo con la sua corte, a causa degli sconvolgimenti politici a Napoli, inoltrarono al sovrano un memoriale accuratissimo affinché intervenisse per fare cessare tutti gli abusi commessi a danno dei prigionieri da parte delle autorità preposte all’amministrazione ed all’ordine di quella tristissima realtà carceraria.
Il memoriale inizia nella forma tradizionale e pragmatica del rispetto e di umiltà verso il Re per poi proseguire citando tutti gli abusi ai quali i prigionieri venivano regolarmente sottoposti. In primo luogo l’argomento “Rancio”, prioritario per uomini che ricevevano un vitto appena sufficiente alla sopravvivenza.
La protesta assumeva toni accorati perché nonostante la spesa del vitto fosse sostenuta dalle “casse rege”, gran parte di quel denaro non veniva speso per comprare il vitto occorrente ai poveri reclusi, questi ne ricevano “nemmeno la mediocrità” mentre in gran parte, finiva nelle tasche degli aiutanti del Soprintendente.
I carcerati firmatari della petizione ricordavano che negli anni trascorsi era d’uso cucinare, alternativamente, fave, fagioli e lenticchie, la carne all’infuori delle grandi feste non veniva più data e quella che ancora veniva fornita era di appena un oncia a carcerato, ed in più mal cotta.
Si passava quindi alla distribuzione del “rancio”, altra lamentela perché gli addetti alla distribuzione non utilizzavano i “cuppini” adatti ad ogni tipo di minestra, cioè per le fave veniva utilizzato il “cuppino” per i fagioli che di fave ne conteneva poche, per i fagioli veniva utilizzato il “cuppino” per le lenticchie che poteva contenere pochi fagioli, insomma ogni metodo era buono per sottrarre ai poveri carcerati quel poco che era dovuto loro.
Altra protesta molto sentita dai prigionieri della “Vicaria” era quella molto gravosa per gente generalmente povera di dovere pagare i “diritti dei carcerati”, che poi erano riservati al Castellano che oggi indicheremmo nel direttore della prigione. Questi “diritti” dovevano essere pagati dai carcerati provenienti da tutto il Regno che per entrare (un eufemismo) alla Vicaria dovevano pagare due tarì e quattro grana per compensare il carceriere ed le guardie, se quei poveretti non possedevano i soldi e non potevano pagare in alcun modo, venivano derubati di quei pochi capi di vestiario che possedevano rimanendo completamente nudi e subire il tormento del freddo invernale.
I nuovi prigionieri dovevano inoltre pagare nove grana per l’olio della lampada che doveva rimanere accesa tutta la notte all’interno del “camerone” dove venivano rinchiusi i prigionieri in gran numero ed in una promiscuità che spesso degenerava in violenze inaudite.
Le lamentele dei carcerati proseguivano e questa volta si trattava di un settore di enorme importanza, le cure mediche che venivano prestate nel piccolo ospedale della “Vicaria” al quale non difettavano i pazienti date le condizioni ambientali ed igieniche che favorivano ogni genere di malattia infettiva causa la mancanza assoluta delle norme più elementari di pulizia, diffusissima scabbia, rogna, tubercolosi e non mancavano anche i casi di lebbra, nonché le febbri causate dalle polmoniti contratte nei “cameroni” gelidi in inverno ed asfissianti in estate.
Le lamentele vertevano essenzialmente sull’imposizione di vari bolzelli, l’ammalato che voleva usufruire di un letto, un sacco ripieno di paglia, doveva pagare, viceversa poteva coricarsi sul nudo pavimento, altrettanto per i medicamenti o il prigioniero pagava o doveva accontentarsi di palliativi inefficaci, nonostante tutti questi servigi venissero compensati regolarmente dal Sovrano.
Per finire, l’accusa era rivolta al comportamento certamente ingiusto dei carcerieri che erano gli stessi che pretendevano il pagamento per ogni servigio prestato e previsto per regolamento ai carcerati che, inoltre, erano sottoposti ad ogni genere di ruberie ed abusi.
Il sovrano non ignorò quell’invocazione di aiuto e ordinò una ispezione conoscitiva che, in fine, confermò punto per punto le lagnanze dei carcerati della Vicaria.
Il sovrano per porre fine a quelle condizioni disumane diede disposizione alla “Congregazione di Santa Maria Visita Carceri” di estendere i compiti di misericordia che già esercitava, anche lo scrupoloso controllo dell’andamento interno al carcere della Vicaria.
L’intenzione del sovrano era meritevole, ma purtroppo la Congregazione, per scarsezza di mezzi economici e quindi di personale, non poté tenere fede alle disposizioni ricevute. Tutto rimase inalterato, i carcerati ad ammalarsi e morire di stenti, di malattie e subire ruberie di ogni genere e tutto il personale carcerario, dal portiere al Sovrintendente ad arricchirsi a spese di quei derelitti. Bisogna chiedersi per concludere, chi fossero i farabutti e gli uomini da bene, rispondere non è certamente arduo.
articolo del 5/10/09 siciliainformazioni