- GIACOMO SERPOTTA - UN ALITO DI VITA NEL CANDIDO STUCCO.
12 gennaio 2010
di
Claudio Alessandri
Di Giacomo Serpotta uomo daremo solo alcuni cenni, è infatti la sua grande figura d’artista che merita la massima attenzione e considerazione, l’uomo nacque a Palermo, l’artista, come tale non può essere confinato in un luogo, in una città. La sua arte è talmente espressiva da scinderlo dal luogo e dal tempo, egli è nato nel mondo e di tutto il mondo è la sua arte e la sua vita. Come dicevamo, Giacomo Serpotta nacque a Palermo il 10 marzo 1656, all’arte dello stucco fu avviato dal padre, Gaspare, ma da questi poté apprendere ben poco, forse i primi rudimenti e la passione, il talento era innato, infatti a dodici anni Giacomo Serpotta rimase orfano e nessuno dei numerosi stuccatori operanti allora in Sicilia può essere considerato suo maestro. L’ambiente artistico e culturale del Serpotta non è di facile identificazione, forse, ma neanche questo è certo, il suo gusto ed il suo stile si affinarono a Roma, dove sembra visse per qualche anno sotto la guida del Raggi (Ricci). Il Serpotta può considerarsi un’artista solitario che sviluppò la sua arte incomparabile sfruttando doti innate e quindi originali, non legate a schemi tradizionali ma volte esclusivamente a cogliere ciò che di più bello poteva essere tratto dall’ambiente che lo circondava, non immagini ieratiche, ma colte dalle spontanee sembianze del popolo, un popolo vivo, vario, allegro che conferì alle opere del Serpotta quel gusto schietto, estraneo agli artisti del suo tempo, tutti tesi ad una perfezione stilistica che inevitabilmente rendeva fredde e innaturali le loro creazioni, scolasticamente ineccepibili, ma dal contenuto fragile ed insicuro. Le prime notizie dell’attività artistica del Serpotta sono del 1679, ed è probabile che nello stesso anno sia nato Procopio, un figlio naturale che diverrà suo aiutante e che dopo la morte del grande artista, continuò l’opera del padre, non riuscendo però a raggiungerne i livelli artistici. Un documento del 1681 ci dà notizia della fusione della statua equestre di Carlo II, il Serpotta era già famoso ed apprezzato in tutta la Sicilia. La Statua sorgeva nella Piazza della Cattedrale di Messina e fu distrutta durante i moti popolari del 1848, di essa rimase solamente un bozzetto al Museo Popoli di Trapani. Nel 1685 Giacomo Serpotta iniziò i lavori per l’Oratorio di S. Zita. Nel 1689 stipulò il contratto, per abbellire con i suoi stucchi, l’Oratorio di S. Lorenzo, considerato il suo capolavoro. Nel 1700 iniziò i lavori nella Chiesa del Monastero delle Stimmate, questi stucchi, dopo la demolizione della Chiesa avvenuta alla fine del 1800, furono trasportati ed ordinati in una sala del Museo Nazionale, dove si trovano tuttora. Nel 1720 lavora a S. Agostino. Nel 1729 termina le statue della chiesa di S. Matteo, dove chiede, con disposizione testamentaria, di essere sepolto. Il 27 febbraio 1732 muore a Palermo. Non di rado nelle chiese siciliane ci si imbatte in immagini che ben poco hanno a che vedere con il culto, immagini dallo stuzzicante sapore profano che, inevitabilmente, ci riconducono alla tradizione decorativa araba. Furono essi infatti che per primi introdussero nei nostri templi immagini trasudanti un prorompente desiderio di vita legando l’atmosfera spirituale del luogo al desiderio tutto umano di vivere in allegria. Questa atmosfera ristagna ancora nella Cappella Palatina, in contrasto con le immagini profondamente sacre delle sue pareti, il tetto, nella cui complice penombra banchettano emiri e danzano odalische. I secoli di denominazione spagnola furono per le chiese siciliane di estrema austerità, l’intransigenza religiosa degli iberici non impedì comunque alle Madonne ed alle Sante di dipingersi le labbra con sgargiante rossetto vermiglio o le guance con la cipria, gli spagnoli insomma non riuscirono del tutto ad estirpare il gusto del profano agli artisti dell’epoca, condizionati da una tradizione millenaria che aveva finito per penetrare nell’animo stesso degli artisti che pur volendo, non riuscirono a liberarsene. Il barocco gesuita trasportò nelle chiese il lusso e lo sfolgorio delle case patrizie. Le pareti dei templi si ricoprirono di marmi mischi, in un tripudio di multicolori scenari, riccioli, acqua spumeggiante, divennero molto più simili a grandi saloni da ballo che a luoghi di culto, dove non sarebbe sembrato strano vedere danzare un minuetto a graziose dame ed a imparruccati gentiluomini. Proprio quando il dilagante neoclassicismo stava per spegnere definitivamente ogni fantasia libera ed originale interpretazione della vita e delle immagini, giunse il Serpotta, a lui si aprirono le vecchie chiese ed altre se ne costruirono per permettergli di dare libero sfogo al suo estro geniale, le sue dita magiche impressero nella materia da lui preferita, lo stucco, immagini sublimi, ma principalmente originali. Alla sua arte fece da sfondo naturale il popolo, da esso trasse ispirazione, dal suo volto colse le espressioni, i sorrisi, la spensieratezza sfrontata ed irriverente, mille idee, infinite soluzioni che andarono man mano ricoprendo le pareti fredde delle chiese, degli oratori, in una attività febbrile tutta tesa a cogliere le immagini di un momento, attimi irripetibili fissati per sempre nella materia. Il materiale usato dal Serpotta per le sue creazioni, lo stucco, non è destinato a durare in eterno, ma serve benissimo a dar vita alle creature dell’artista, le figure, i visi paioni vivi e viene quasi voglia di accarezzarli, toccarli, per provare oltre alla gioia visiva quella del tatto, non solamente una gioia spirituale ma anche carnale, nello spirito serpottiano. Il Serpotta è cosciente della fragilità delle sue opere, ma intanto continua a creare, fanciulli paffuti e sorridenti che guardano fiduciosi alla vita che li attende, donne giovani e belle che prossime al parto, languidi giovinetti in germoglio, se le sue immagini prendono sembianze di santi, sono sembianze prese a prestito per una breve rappresentazione teatrale. Peppe Fazio, nell’introduzione alla sua opera dedicata al “Serpotta” dice infatti: “Gesti e scene del teatro non sono estranei allo spirito del Serpotta. Un’arte che si ispira al provvisorio non ha difficoltà a scantonare nel fittizio di uno spettacolo, di un episodio di vita irreale cioè, che ha un suo tempo e un suo luogo convenzionali, offerto alla vista di un pubblico in cerca di distrazioni”. “Non più arte figurativa, ma arte dell’illusione. Nulla di meno assoluto, nulla di meno sacro”. Ed infatti i piccoli palcoscenici del Settecento li ritroviamo sulle pareti di S. Lorenzo, di S. Zita, vi si recitano martirii, vita di sante o scene di passione. S. Francesco, nudo sul fuoco, cerca di resistere alla tentazione che, vita dalla volontà del Santo, si gira per andarsene, ancora S. Francesco accenna ad un passo di danza davanti al Saladino. La scenografia è perfetta quando pone S. Lorenzo fra gli alberi e rovine, splendidamente perfette e irreali. Un piccolo putto che si è coperto il capo con un drappeggio, ride malizioso per lo scherzo, altri tre recitano una scena tragica, uno giace al suolo morto, un altro lo ricompone amorevolmente mentre un terzo piange accorato, asciugandosi gli occhi. In tutte le opere del Serpotta traspare una smania incontenibile di divertirsi, ma non con artifici da artista, interpretando semplicemente la realtà che lo circonda. Anche i Santi devono essere allegri, se così non fosse la loro santità non sarebbe cagione di letizia, ma di tristezza. Le opere del grande maestro palermitano non sono scolpite nel solido marmo, non sono modellate nel bronzo, sono sgorgate dalle dita, come se la sua anima avesse preso corpo in quella materia candida e da essa sorghino man mano, figure di Santi, di fanciulli, di ragazze, di animali, tutto rivolto verso l’immagine vicinissima di Dio che guarda benignamente divertito da quegli scherzi, da quei visi gioiosi e maliziosi che lungi dall’offenderlo, lo esaltano nella sua vera natura di infinita bontà.