- PROCESSO BREVE. UN CONFRONTO TRA IL "CODICE MELFITANO" DI FEDERICO II E LA POLITICA D'OGGI: -
12 novembre 2009
di Claudio Alessandri
A seguito della bocciatura da parte della Corte Costituzionale del così detto “Lodo Alfano”, che prevedeva un baluardo insormontabile a difesa del presidente del Consiglio, mettendolo al riparo da qualsiasi procedura legale per eventuali reati commessi durante la sua presidenza del consiglio o precedenti, si è scatenata una campagna denigratoria nei confronti di coloro che il premier ha sempre appellato “toghe rosse”, cioè giudici politicizzati, ovviamente appartenenti al fu partito comunista, tutti, nessuno escluso a suo dire lanciati alle sue calcagna come “botoli ringhiosi” interessati esclusivamente alla sua morte, ovviamente politica. Il personaggio però non è di quelli che si arrendono facilmente.
Il premier si è subito predisposto al contrattacco e, affiancato dai suoi fidi alleati, ha dato vita ad una protesta vibrata proclamandosi vittima di un'indegna persecuzione, giustificate quindi le successive iniziative legislative, per tappare la botte prima che tutto il vino si disperdesse. I “tappi” per la verità sono due, la “prescrizione breve” ed il “processo breve”, ambedue “giustificati dall’improrogabile necessità di porre fine alle legittime aspettative dei cittadini italiani”.
In questa sede non voglio commentare gli effetti pratici che comporterebbe l’approvazione di dette proposte, ma non posso esimermi dal constatare di essere in presenza di un ulteriore “catenaccio” a salvaguardia dell’immunità giudiziaria del presidente del Consiglio e, da studioso “innamorato” della vita e della storia del re ed imperatore Federico II di Svevia, mi è gradito ricordare che lo stesso, nel lontano 1230, conscio della confusione creata da tante e diverse legislazioni dovute alle varie etnie dei sudditi che facevano parte del suo vasto impero, decise di unificarle in un unico codice, tale da porre fine ad ingiustizie ed abusi di ogni fatta.
A tale scopo, Federico II convocò presso la città di Melfi circa 40 giuristi esperti di tutte le branche del diritto civile, penale ed ecclesiastico. Ad opera terminata, dopo circa un anno di lavori, venne partorito il così detto “Codice Melfitano” che l’imperatore ribattezzò immediatamente “Liber Augustalis”.
Alcuni articoli contenuti in questo “monumento legislativo” sembrano riemergere da un lontanissimo passato a ricordare che i principi legislativi non debbono in alcun modo contemplare gli interessi di un singolo, ma dell’intera comunità, mettendo tutti al riparo da possibili abusi, sempre possibili al cospetto della fragilità umana. Sfuggiva a queste leggi proprio l’imperatore perché “primus inter pares”, ma il Cavaliere non è tale, anche se il suo legale lo afferma a gran voce. Ritengo quindi quanto mai opportuno riportare alcuni articoli, in forma integrale del “Codice Melfitano” che si attagliano in modo stupefacente all’attuale momento politico del parlamento italiano, lasciando ai lettori le conclusioni che riterranno più opportune.
TITOLO XLIX.
Perché non si prolunghi il dibattito nelle cause
L’imperatore Federico II
Vogliamo che tutti i giudici del nostro regno, ed ognuno di loro, concorrono con la loro volontà a risolvere con celerità le cause loro affidate alla loro giurisdizione, non indulgendo affatto sulle argomentazioni degli avvocati che, perorando, cercano di portare alle lunghe le motivazioni della difesa, oltre il tempo richiesto dalla reale necessità dell’istruttoria. Dopo la deposizione in giudizio dei testi e l’esame dei motivi di legge da essi adottati, per qualsiasi causa gli avvocati abbiano come massimo due giorni di tempo per disputare in materia di diritto e per presentare la loro conclusione.
Qualora il giudice ritenga evidente la loro lungaggine gli avvocati siano chiamati a pagare tutte le spese che hanno causato con il loro ritardo alla parte vincente. Se invece il ritardo non è dovuto agli avvocati, ma alle parti che non vogliono concludere, allora la parte che costringe a rinviare la conclusione e la definizione della causa sia chiamata a pagare similmente tutte le spese al suo avversario, spese che devono essere precisate, nell’uno e nell’altro caso, sotto giuramento della parte e devono comprendere gli oneri del prolungato giudizio. Quando invece le parti concludono, ma sono i giudici che si dilungano prima di pronunciarsi sulla sentenza, che deve essere sempre emessa per volere del Dio secondo giustizia, noi non vogliamo fissare ai giudici un termine per la sentenza, anche in considerazione dell’elevato numero di cause pendenti che essi potrebbero avere; ma facciano in modo di terminare la causa con sentenza finale entro dieci giorni dalla conclusione del dibattito, essendo questa una scadenza imposta come giusta dalla nostra presente Costituzione.
TITOLO L.
Dolo ed errore del Giudice
Re Ruggero II
Se un giudice emette con frode o inganno una sentenza contraria alla legge, decade irrevocabilmente dalla funzione di giudice, viene additato ad infamia ed ha confiscati tutti i beni. Se invece il giudice in una sentenza cade in errore per inesperienza del diritto, egli deve essere punito secondo l’arbitrio della nostra volontà.
TITOLO LI.
Se il Giudice emette ingiusta condanna a morte
Re Ruggero II
Se un giudice dichiara qualcuno colpevole di un reato capitale e lo condanna alla pena di morte, qualora risulti che abbia ricevuto un compenso per questa sentenza, deve essere condannato alla pena di morte. (Ovviamente essendo mutate le pene in senso umanitario, parleremo in questo caso di ergastolo). E’ appena il caso di ricordare che le leggi di Federico II vennero codificate nel 1200, la storia ricorre nel 2009 con segno contrario e peggiorativo.
articolo del 12.11.09 italiainformazioni